I Misteri di Trieste

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rofizal
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I Misteri di Trieste

Messaggio da rofizal »

Questi piccolissimi quattro volumetti, datati 1858, costituiscono una pregiabile opera che vede autori Adalberto Thiergen e P. Dr. Generini. Personalmente adoro questo "romanzo contemporaneo", perché ricco di fascino e di immagini di una Trieste che sembra di rivedere davanti ai nostri occhi. Come fantasmi del passato rivivono case, piazze, luoghi, personaggi forse mai scomparsi.

Ecco alcune pagine dal libro.

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Anastasia, detta la zotta

Chi di voi siasi trovato, o lettori, sul primo albeggiare del giorno in Piazza Grande S. Pietro, avrà osservato sotto la loggia, una specie di caffetteria ambulante intorno la quale avrà veduto un affollarsi di facchini, d'operai, di donne, di fanciulli che prendono una tazza di caffè e latte, entro la quale vi cacciano una fetta di pane da 3 carantani al funto, che divorano in quattro boccate, tracannano il resto del caffè, e poi restituiscono la tazza vuota col loro obolo al previdente caffettiere o caffettiera.
Nella mattina seguente ai fatti che abbiamo toccato, le cose andavano dei loro piedi come al solito, cioè si ciarlava un poco, ed in fretta, si divorava la merenda onde avviarsi solleciti al lavoro della giornata.

Sull'angolo destro della strada detta di San Sebastiano, nell'anno 1847, alli 11 ottobre, eravi la stessa bottega di liquorista che oggi stesso si vede; questa alcuni anni addietro avea servito di negozio da merciaio, e in una notte scoppiò in essa un misterioso incendio di cui molto si parlò in quell'epoca. Di tal fatto avremo forse argomento di discorrerne in avanti, quando accenneremo ad alcuni incendi che funestarono Trieste.

Nella mattina sopra indicata, quella bottega era un porto di mare : chi andava e veniva, e tutti per rinvigorirsi lo stomaco con l'acquavita, col petesse, col rampega muri, colla lunga vita, colle lagrime di Napoleone ecc. a maggior gloria di quell'antico adagio che i gusti sono vari.

Appoggiata con le spalle all'angolo che formano le due porte d'ingresso di detta bottega, stavasi una vecchia lunga e secca con un fazzoletto legato intorno la testa, dal quale sortivano alcuni pizzi di capelli grigi che si disegnavano ad arabeschi sopra una fronte livida, sporgente. Avea piccoli occhi grifagni, naso schiacciato, bocca fessa sino agli orecchi, mento appuntito, e che pareva agognasse a congiungersi con la punta del naso; non aveva denti in bocca per cui unendosi più del naturale le mandibole, que' due cari amici s'avvicinavano come le branche del granchio-poro; per completamento di bellezza aveva i fianchi spostati e camminava come un trabaccolo con vento di traverso.

Codesta donna che avreste veduto in quella mattina, ora non la vedrete più, perché il cholera fece sovr'essa giustizia di Dio, essendoché avea cattivo odore, e tenea certe pratiche in alcuni brutti viottoli sporchi di carbone. Non vi era petessante che non la conoscesse, e nessuno dei frequentatori di quel negozio da liquorista ommetteva in passando di slanciarle qualche motteggio più o meno grossolano.

Le babe raccontavano di essa che era di origine greca, che gettava le carte in modo da far istordire, mentre conosceva il passato e il futuro, e che divertitasi a stregare le piccole creature in modo che morivano da consunzione.

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Messaggio da rofizal »

Una casa di campagna

Sopra una delle molte colline che s'elevano lungo la catena dei monti che fanno spalliera alla riva del mare, formante il golfo di Muggia, ed alla larga e bella via che mette a Servola, aveavi nell'ottobre dell'anno 1847 una casuccia che veduta dal di fuori faceva credere non essere abitata da contadini.
Era semplicissima, di un solo piano oltre il pian terreno, ed una soffitta; quattro finestre, con imposte rosse, guardavano il mare, altre due la città, ed una sopra un viottolo che correva dietro la casa stessa e che guidava ad altre di quelle campagne. Il costruttore con buone ragioni non aveva collocato nella parte posteriore della casa che una sola finestra, e ciò per proteggere coloro che l'abitavano dalla bora che in quella direzione soffia veemente; ma se il costruttore avea pensato a questo, pare che nell'estendere il suo piano architettonico avesse dimenticato di fare le scale, (come già accade ad uno dei più celebri architetti teoretici nel fabbricare un palazzo secondo le più strette regole dell'arte), mentre non s'innalzavano già internamente, ma bensì, erano costruite in legno, ed al di fuori, e mettevano al piano superiore, in guisa che questa non era in qualsiasi comunicazione diretta ed interna col pianterreno.

Davanti la casuccia s'estendeva un piccolo piazzale, lungo il quale vedovansi qua e là alcuni rozzi tavoli, macchiati di vino. Poco lungi eravi un tratto di terreno privo do ogni erba e sabbioso, o meglio polveroso, che serviva ai dilettanti che frequentavano quel luogo per assaporare il vino della campagna, giocando le borelle.

Una frasca, posta al di fuori del gran portone della campagna, avvertiva a chi passava che colà si poteva bere forse un buon bicchiere di vino.

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Messaggio da rofizal »

Un bellissimo fantasma

Ciascuno dei Triestini più vecchi, ed i giovani quand'eran fanciulli, si rammenteranno che nell'anno 1833 bucinavasi generalmente a Trieste, che sull'inoltrarsi della notte si vedeva aggiarrsi per le vie della città la figura di una donna vestita di bianco, di alta e bella statura, la quale a guisa di spettro, or spariva ad un tratto davanti agli occhi di chi la vedeva od incontrava, ed ora, seguita da qualche curioso e più coraggioso degli altri, fatta una lunga camminata, girando or in questa or in quella strada, montava verso il monte di San Giusto, e là con sommo stupore e terrore di tutti si dileguava in mezzo a quelle mura, che circondano l'antico cimitero.
Tutta Trieste parlava in quell'epoca di codesta donna, che veniva indicata come la donna bianca la quale al dir di alcuni era di una bellezza non comune, almeno essi arguivano da quanto avean potuto discernere sotto il di lei bianco velo. Le pattuglie di notte la seguivano per arrestarla, ma colei ben presto toglievasi alla loro vista, oppure se tardava alcun poco, davasi a tale precipitosa fuga da toccare appena coi suoi bei piedi, coperti da una scarpa di raso bianco, il suolo, in modo che coloro che la seguivano restavano delusi ed attoniti.

Quest'apparizione, su cui la polizia stessa dovè rivolgere la sua attenzione, seguiva regolarmente dalla mezza notte ad un ora, talvolta anche prima, ed era sì strana e meravigliosa, che, come dicemmo, tutta Trieste ne parlava in allora.

Alcuni giovanotti più arditi degli altri, ed ansiosi di scoprire il mistero che celavasi sotto quella donna bianca, avean più volte tentato di aspettarla in qualche contrada, e di seguirla. Ma sempre erano costretti desistere da tale persecuzione notturna, ché l'incognita faceva tanti e sì replicati giri in tanti e sì diversi viottoli e differenti contrade della città vecchia e nuova che tutti perdevano la pazienza ed il coraggio; tanto più che percorreva quelle solitarie strade in guisa di un'ombra muta e maestosa, annientando con uno sguardo tremendo, (che al dir di tutti era più quello di un essere dell'altro mondo che di questo) colui che ardiva avvicinarsele di troppo.

Era pallida come la morte, e bela come un angelo del cielo, andavano ripetendo coloro che la avean veduta, e che pur s'eran lasciati atterrire.

Si sapeva del resto che quella donna o meglio fantasma non faceva, né avea mai fatto male ad alcuno.

Un celebre artista che in quell'anno cantava nel Teatro Grande, udito narrare codesta strana apparizione, si ficcò in capo di scoprire il mistero che circondava la incognita, o la straniera, come generalmente per antonomasia anche la si appellava, perché appunto in Teatro Grande si rappresentava quella volta la Straniera, opera dell'immortale Bellini.

Cesare, così nomavasi il cantante, bello della persona, coraggioso di cuore e nobile di sentimento, spinto da curiosità, e forse dal naturale impulso di andare in traccia di un'avventura, che in ogni modo prometteva riescire strana, decise di cercare questa incognita e parlarle; ed in una bella notte dei primi novembre, dopo il teatro, salutati gli amici, con cui avea cenato, armatosi di un pugnale, ed avvoltosi nel suo mantello alla veneziana, coraggioso e fiducioso della forza del suo braccio, qualora ciò occorresse, escì di casa e si diè a percorrere a lenti passi le deserte strade di Trieste.

Passato il corso, la piazza della Borsa, il corpo di guardia della Piazza grande, e la Loggia che mette alla chiesa dei Gesuiti, l'orologio scoccò le ore 11¾.

E' precisamente l'ora! pensò fra sè Cesare, ed avviluppatosi meglio nel suo mantello, ché l'aria soffiava molto fredda, si assicurò in pari tempo di non aver dimenticato il pugnale. Poscia continuò il cammino.

Poche lanterne ad olio illuminavano in allora la parte interna della vecchia città; ma in quella sera si poteva ben farne a meno, poiché la luna splendeva in tutta la sua bella luce, e diffondeva in ogni dove i suoi misteriosi raggi. Per molto tempo il cantante non avea incontrato che qualche tardivo frequentatore di caffè, che doveva andare a casa, perché si chiudeva la bottega in cui sin allora s'era trattenuto. Finalmente non incontrava più nessuno, se non che tal volta qualche ronda che silenziosa proseguiva a lenti passi, senza abbadargli.

Egli aveva percorso già due volte in su e giù la strada ripida che conduce alla cattedrale di San Giusto. Anche mezzanotte era suonata, ma la dama bianca non compariva.

Si trovava sul piccolo piazzale detto di Barbacan, quando ad un tratto udì da lontano un rumore leggiero di passi: si volse e vide dietro di sè avanzarsi finalmente chi da tanto tempo aspettava.

Era infatti la dama bianca, la straniera. Vestiva un abito bianco tagliato a strascico, e stretto ai fianchi con un nastro roseo; il capo avea avvolto in un gran velo. Camminava maestosamente, ritta, senza muovere nè il capo nè le braccia che tenea conserte al petto; in unamano avea un mazzolino di fiori. Il nostro cantante appena vedutala si nascose in una di quelle specie di nicchie che si veggono sotto l'arco di Riccardo, aspettando che passasse.

La straniera lentamente si avviò all'erta strada di San Giusto. Cesare la seguì a qialche distanza, ma scorgendo ch'essa accelerava il cammino, affrettossi pure in guisa che il calpestìo dei suoi passi pervenne alle orecchie dell'incognita. - Questa incontamente si volse, alzò una delle sue mani in atto minaccioso, imponendogli di arrestarsi. Cesare infatti si fermò, e per ubbidire al comando e per osservarla più da vicino. Indi fatti due passi avanti, disse: bella incognita, permetti che mi avvicini a te e che t'ammiri!...

Ma la donna bianca l'interruppe, e con voce cupa quasi uscisse dal fondo di una tomba, disse: un solo passo ancora e tu sei morto! - E prima che Cesare avesse potuto proferire una parola, la donna ravvoltasi meglio nel velo, fè un mezzo giro ed a precipitosi passi continuò la salita. Il mostro cantante, che non voleva per così poco desistere dal suo intento, le tenne subito dietro, ma colei sfiorando appena il suolo, già si era allontanata, e già egli temeva perderla dagli occhi, quando la luna, che per un momento era rimasta coperta da un nero nugolone, riapparve di bel nuovo rischiarando i luoghi e la fuggitiva.

Cesare si trovò in quello sulla piazzetta davanti la cattedrale di San Giusto, e vide come la straniera a veloci passi s'internava nella strada sita tra il castello e la chiesa, e voltato l'angolo, appressatasi ad uno degli antichi muri mezzo crollati, che in allora vedevansi dietro la chiesa, sparve tutto ad un tratto quasi si fosse approfondata nella terra.

Il cantante senza farne caso accorse sino al punto in cui era seguita la sparizione, esaminò il luogo, ma null'altro vi scorse se non diroccate muraglie e macerie. Ma tra quest'ultime, ed appunto nel sito in cui egli riteneva come certo che colei fosse scomparsa, vide qualche cosa di bianco. Si abbassò e rinvenne una rosa bianca; la raccolse e se la pose in seno. Poi si assise sovra una pietra, in attesa di rivedere la meravigliosa straniera. Aspettò quasi un'ora, ma indarno. Il freddo avea incalzato; un brivido gli discorrea per le ossa - decise di ritornarsene a casa, non senza prefiggersi in mente di rinnovare nella futura notte la sua spedizione.

La notte seguente fu di fatto più felice, perché già prima che suonassero le dodici, incontrò la dama bianca, appunto mentre la cercava nei viottoli che mettono alla piazzetta di Barbacane. Celatosi nuovamente come la sera antecedente, sotto l'arco di Riccardo, aspettò che passasse, per seguirla ben tosto. Risoluto l'afferrò allora per un braccio:

- Ardito mortale! esclamò la straniera, arrestandosi forzatamente, e tentando svincolare il suo braccio: chi sei tu, che osi trattenermi?

- Son tale, rispose prontamente Cesare, che nel toccare quel morbido braccio, s'era assicurato di non aver da fare per nulla con un essere dell'altro mondo: Son tale che ti vide, che ti ama, e che perciò ti cerca...

- Lasciami, uomo mortale! ripetè la donna, non sono di questo mondo!

- Baie! disse allora Cesare, che fattosi più ardito abbandonò il braccio ed invece s'impossessò della di lei mano, coperta da un guanto bianco, ch'ella però non ritirò. - Son baie! Non credo a spettri e fantasmi, ma bensì amo ed adoro una bella donna, qual sei tu!

- Tu non sai chi io mi sia! osservò l'incognita, tentando allora appena svincolare la sua mano da quella del cantante.

- Ben il so io - tu sei una leggiadra fanciulla!

- Sono la Straniera triestina, rispose in tono risoluto la bianca dama: e tu non ricercarmi più oltre. Và, allontanati, se hai cara la vita! e questa volta fè prpriamente mostra di ritirare la mano. Ma Cesare che sotto il velo avea scoperto un bel volto, non si lasciò intimorire sì presto, e deciso di sciogliere il mistero, disse: Non temo per la vita, perché sono armato. - Tu però, soggiunse, non sei straniera, perché sei triestina come tu stessa dicesti, ovvero non sei triestina, perché, come pure dicesti, sei straniera...

- Tu sei altrettanto spiritoso, quanto ardito, ripigliò l'incognita, e quindi perdono a te, ciò che ad altri giammai avrei perdonato. Solo ti dirò che mal si conviene assalire durante la notte una donna...

- E' verissimo - ma, mia bella straniera, permetti l'osservazione, ch'è cosa molto strana il vedere appunto aggirarsi sola di notte una donna per le vie...

- Ma tu non sai quai motivi mi possano costringere a ciò...

- Non li so, davvero, ed è appunto per questo che desidero saperli.

- E con qual diritto?

- Col diritto che ho perché nutro per te dell'ammirazione, dell'amicizia... Già altre volte ti vidi, e non potei resistere a parlarti.

- Mi vedesti altre volte?

- Sì, da lontano - ma non così da vicino, nè mai vidi il tuo bel viso, che capisco dev'essere angelico...

- Lo vorresti vedere adunque il mio viso? domandò allora la straniera.

- Mi faresti l'uomo più felice della terra...

- Ebbene, t'appagherò - ma a tre condizioni.

- Anche a mille, e quali?

- Prima mi dirai il tuo nome - poi lascerai la mia mano che tieni stretta in modo che già mi fai male, e poscia mi prometterai, che appena vedutami, da uomo d'onore rivolgerai la testa da quella parte, sino al momento che batterò una mano sull'altra...

- Sta bene, e prometto quanto domandi, rispose Cesare spinto al sommo grado di curiosità: e ti dirò in quanto alla prima che mi chiamo Cesare N, e che sono cantante al Teatro Grande.

- Oh! voi siete il celebre cantante Cesare? esclamò la straniera: Sì, or vi ravviso, perché vi vidi, e già mi entusiasmai al vostro bel canto... Ora però, amico mio, lasciate la mia mano...

- Godo, che mi trovi veridico, rispose il cantante, fiducioso, abbandonando la mano della dama bianca.

- Ora guardatemi! disse questa, sollevandosi il velo, e Cesare vi osservò sotto un bianco viso di ammirabile bellezza, con nere chiome ed occhi scintillanti.

Ei nel vederla diè un grido di sorpresa ed ammirazione.

La dama bianca stette muta per un istante, e sembrò compiacersi della meraviglia del suo persecutore, poi disse: Domani vi rivedrò in piazza di Barbacan! Ma adesso mostratemi di essere uomo d'onore!

A malincuore Cesare si ricordò della sua parola, ma pur lusingato de la promessa si volse - di là a poco udì una leggera battuta di mano.

Girò subito il capo... ma la bella dama bianca era scomparsa. Invano guardò e cercò qua e là attorno, ed invano girò ancora per lungo tempo in quelle deserte vie, sin a che sfinito ritornò al suo albergo.

La sera susseguente non mancò Cesare di passeggiare su e giù per molte ore dalla piazza del Barbacane a quella di San Giusto, ma la dama bianca non si vide.

Nè da quella sera alcuno ebbe più a vederla, a poco a poco andarono a cessare nel volgo le fole che si raccontavano sul suo conto.

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Messaggio da rofizal »

L'Albergo Metternich

Su due angoli della facciata dell'albergo ex Metternich, vedonsi due pesanti veroni in pietra calcarea, che formano una specie di sentinella morta, ad un verone ancor più goffo e pesante che sporge nel mezzo.
Era sull'imbrunire del giorno; da qualche ora il vapore giunto da Alessandria aveva gettato l'àncora, una o due gomene distante dalla Sanità, ed avea già sbarcato non solo i passeggeri, ma altresì le merci. Per una di quelle combinazioni che son si frequenti nella stagione autunnale, avendo incontrato mare burrascoso erasi ritardato d'un giorno nella sua traversata.

Chi avesse gettato lo sguardo sul verrone a dritta dell'albergo, avrebbe visto ad ogni qual tratto disegnarsi nell'ombra la figura d'una donna piuttosto piccola, la quale irrequieta girava lo sguardo or da una parte, or dall'altra. Dopo circa una mezz'ora di codeste interrotte osservaziioni, la notte si era fatta sì nera che appena si potevano distinguere gli oggetti ad un venti passi; i fanali non erano ancora accesi, e la riva Carciotti era immersa in una profonda oscurità. Pure si vedevano disegnarsi sull'orizzonte, che ancora manteneva un leggiero crepuscolo, da un lato le alborate, le antenne, i pennoncelli dei bastimenti ormeggiati tutto lungo la riva, che smossi dall'onde si piegavano ora da un lato ora dall'altro in modo che pareva ballassero la ridda; un fresco venticello, solito precursore della bora, fischiava tra le sartie; - dall'altro vedevansi le eleganti cupolette del bel tempietto dei Greci, la massa quadrata del Metternich e l'architettura mezzo greca del palazzo Carciotti, uno dei più belli di Trieste con la sua alta cupola di rame.

Il pesante passo di qualche marinaio che guadagnava il suo bordo solo rompeva il silenzio di quell'ora, mentre poco prima offriva quel sito una scena delle più animate, pello scaricare e caricare dei bastimenti, le pese, i carri, le zaje ecc.

Ma a poco a poco vedeasi avanzare come a balzi dall'interno della città una luce rossastra: erano i fanali che venivano progressivamente accesi, finché si accesero pur quelli della riva Carciotti, quelli del caffè Tommaseo, e quasi nello stesso tempo vedevansi correre varilumi da una all'altra finestra dell'albergo. In allora si rischiarò un poco la terra, ed il cielo apparve più fosco e più nero.

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Messaggio da rofizal »

Passeggio Sant'Andrea

Il bel passeggio Sant'Andrea era ancora deserto di passeggianti, perché di poco eran scoccate le tre, e già Ernesto da mezz'ora passeggiava su e giù pegli ancora ombrosi viali; avendo fatto da prima una specie di escursione, erasi internato in una di quelle stradelleche tagliando diagonalmente l'altura su cui s'appoggia Trieste, mete direttamente all'interno della città, e gli parve che una di quelle fosse il sito più opportuno per discorrersela senza disturbi con la sua bella.
Finalmente il passeggio cominciò a popolarsi di giovanotti, di eleganti signore, ed i ricchi equipaggi vidersi ben presto trascinare rapidamente verso Servola le allegre brigate.

Ernesto stavasi di facciata la fonderia Strudthoff e protendeva lo sguardo verso Sant'Andrea. Quantunque ei non sapesse con qual carrozza verrebbe la sua bella, pure veggendo due cavalli morelli attaccati ad un cocchio semichiuso, sentissi il cuore batter veemente. La carrozza ben presto lo raggiunse, ed egli potè vedere da vicino la sua innamorata.

I cavalli si fermarono: Ernesto corse allo sportello della carrozza e prese la mano a Clara perché scendesse; questa il guardava tutta commossa, quando alzati gli occhi così astrattamente sopra una carrozza che tutta chiusa passava con rapido trotto, a quella vista non potè contenere un grido represso: ad onta che fossero chiusi i vetri, avea distinto in essa sir Arturo Kocking...

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FINE


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Messaggio da AdlerTS »

rofizal ha scritto:L'Albergo Metternich

Su due angoli della facciata dell'albergo ex Metternich,
Che poi saria l'Hotel De la Ville


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Messaggio da rofizal »

Pregheria se se pol spostar questo mio vecio topic nela sezion libri.
Grazie! :-D


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Messaggio da rofizal »

Grazie per lo spostamento. :-D

Cusì poco continuar con qualche pagina dal libro che no trata proprio de misteri e legende.

Ricordo che xe trato dal libro “I misteri di Trieste” di A. Thiergen e P. Dr. Generini, prese dall'edizione del 1858 (seconda edizione).


La Bottega di Liquorista
Vol. I - Pag. 25-26
Chi di voi siasi trovato, o lettori, sul primo albeggiare del giorno in Piazza Grande S.Pietro, avrà osservato sotto la loggia, una specie di caffetteria ambulante intorno la quale avrà veduto un affollarsi di facchini, d'operai, di donne, di fanciulli che prendono una tazza di caffè a latte, entro la quale vi cacciano una fetta di pane da 3 carantani al funto, che divorano in quattro boccate, tracannano il resto del caffé, e poi restituiscono la tazza vuota col loro obolo al previdente caffettiere o caffettiera.

Nella mattina seguente ai fatti che abbiam toccato, le cose andavano dei loro piedi come al solito, cioè si ciarlava un poco, ed in fretta, si divorava la merenda onde avviarsi solleciti al lavoro della giornata.

Sull'angolo destro della strada detta di San Sebastiano, nell'anno 1847, alli 11 ottobre, eravi la stessa bottega di liquorista che oggi stesso si vede; questa alcuni anni addietro avea servito di negozio da merciaio, e in una notte scoppiò in essa un misterioso incendio di cui molto si parlò in quell'epoca. Nella mattina sopra indicata, quella bottega era un porto di mare: chi andava e veniva, e tutti per rinvigorirsi lo stomaco con l'acquavita, col petesse, col rampega muri, colla lunga vita, colle lagrime di Napoleone, ecc. a maggior gloria di quell'antico adagio che i gusti son vari...

Il Monte di Pietà
Vol. I - Pag. 257-259
Il Monte di Pietà di Trieste fu istituito nell'anno 1846, in seguito al fermo proponimento del governatore conte Stadion, e per opera del comune della nostra città. Merita menzione, che mentre a Perugia nell'ano 1500 per opera di un italiano, si aperse il primo monte di Pietà di tutta Europa, la città di Trieste, circa cent'anni dopo, che pure in quell'epoca era piccolissima, non contando che 4500 anime circa, aperse pur essa, mercè la cura del vescovo triestino Pompeo Coronini, nell'anno 1634, un consimile stabilimento, che però più tardi nel 1769 rimase, in seguito a varie fatali circostanze, chiuso.

In oggi, il Monte di Pietà occupa un antico locale, in vicinanza all'antica sede dei vescovi tergestini; è desso sito poco più sopra la metà del declivio del monte sulla cui cima sorge il castello e la cattedrale di San Giusto.

Se uno dei nostri lettori, visitasse codesto luogo, e specialmente il sabbato ed il lunedì in cui l'affluenza dei ricorrenti è maggiore degli altri giorni della settimana, gli si presenterebbe certamente un quadro non molto confortante, per convincersi intorno la florida e prospera condizione della nostra popolazione in generale, e della classe inferiore in particolare. Ei vedrebbe allora occupate le ampie scale del vasto edifizio, dal primo sino all'ultimo gradino, da donne ed uomini, vecchi e giovani, fanciulli e fanciulle, portando ciascuno il rispettivo oggetto, che vuole o deve dare in pegno per un paio di fiorini, di cui ha urgente bisogno, e che non essendovi il Monte di Pietà dovrebbe o vendere con grave perdita, oppure dare in pegno a qualche ingordo usuraio od usuraia, di cui, pur troppo, come dimostreremo a suo tempo, tuttavia abbonda la nostra città, ad onta dell'esistenza di codesto utile istituto.

Ei vedrebbe portare colà i più differenti e svariati oggetti: vi scorgerebbe l'abito nuovissimo di preziosa stoffa appartenente a qualche ricca signora, che già n'è ristucca, vicino alla gonnella rotta e succida di qualche povera fruttivendola; vedrebbe il moderno frac di qualche zerbinotto, presso la giubba di qualche povero marinaio; vedrebbe scarpe e stivali e cappelli, nuovi e vecchi, in mezzo ad ogni specie di utensili da cucina, incominciando dalla caldaia sino allo spiedo ed alla pentola, nel cui interno scoprirebbe ancora qualche avanzo della magra zuppa, che forse la sera avanti, avea servito di cena alla povera famigliuola, costretta all'indomani ad impegnare la pentola stessa, per comperare il semplice pane; vedrebbe poi una schiera di donne ed uomini, che al primo aspetto sembrano nulla recare con loro, ma che invece celano sotto il grembiale, o nel seno, o nelle tasche qualche oggetto prezioso.

Allorquando il campanone della vicina cattedrale di San Giusto annunzia le otto ore, ecco che si spalancano le porte della gran sala, ed ecco che tutta quella gente, agitantesi come un'onda di mare, s'avanza, s'urta e si spinge, volendo ciascuno essere il primo, per fare stimare il suo pegno. Alla parte di dritta della sala si schierano i latori di oggetti comuni, alla manca collocansi coloro che vogliono impegnare effetti preziosi.

Zaule
Vol.I - Pag. 306-308
Poco lungi da Trieste, in mezzo al declivio dei colli, che formano, per così dire, l'avanguardia del petroso Carso, distendesi una dritta via, tutta fiancheggiata d'alberi d'alto fusto, in modo da farla rassembrare al viale d'un giardino inglese; è questo il cosiddetto stradone di Zaule. Durante l'inverno la bora scendendo dai vicini monti e trovando quella dritta strada, vi irrompe per entro con tale violenza, che ben molte volte ne andarono rovesciate carrozze e cavalli. Durante la notte, quando un pallido raggio di luna cadente risplende melanconico in cielo, e vassi a poco a poco ascondendo tra i densi vapori che s'elevano dalle campagne attigue alle adesso abbandonate saline di Zaule, quella strada offre un aspetto funebre; da un lato le montagne si disegnano in nero sull'orizzonte, mentre dall'altro la nebbia prende forme di fantasmi e di spettri, e gli alti alberi che fiancheggiano come dicemmo la strada, sembrano tante ombre giganti che ballano l'ultima ridda sulla terra.

Nessuno può traversare di notte quel sito, che pur arride allo splender del sole, senza sentirsi tocco nel profondo dell'animo. Aggiungi a ciò che infiniti fatti si narrano di genti che in mezzo a quelle vallate finirono i loro giorni con morte violenta, o perché annoiati della vita, o per atroce delitto.

Sul termine dello stradone di Zaule, vedi la piccola villa che porta tal nome. La ricettoria delle gabelle, un'osteria e qualche casa costituiscono la contrada; un piccolo ponte ad arco molto saliente taglia allora di netto la strada; dalla parte di Trieste, vedi ancora sculta sul parapetto l'aquila imperiale, dall'altro lato vi vedi il veneto leone, essendoché quello negli ultimi tempi era il confine tra i possedimenti dell'Austria e quelli della Repubblica Veneta. Attraversato il ponte e procedendo, la strada si apre in un bivio: da mano dritta ascende, scende verso il mare alla sinistra, il primo mette a Capodistria, l'altro a Muggia. Ore procedendo per quel declivio dopo alquante tese, ti si apre allo sguardo la bella vallata di Muggia e San Pantaleone; un seno di mare s'interna tra monti, ma copre solo dei bassi fondi, che nell'estate restano quasi sempre scoperti, mentre nell'inverno costituisco una valle da pesca non dispregiabile: sopra codeste vallate ingombre d'alghe, d'erbe marine e di crostacei, si distende una specie d'istmo stretto e serpeggiante, che evitando la curva formata dalla base dei monti congiunge i due territori costituendo la corda dell'arco, descritto appunto dalle suddette montagne.

Le sessolotte
V0l. II - Pag. 103-104
E' inutile che i nostri lettori non triestini cerchino ora la definizione di un tale epiteto nei dizionari, perché questo nome e chi lo porta, è cosa affatto triestina, e quindi non ve lo troveranno certamente registrato. E' perciò che diremo brevemente, cosa s'intenda a Trieste sotto questo nome, che probabilmente deriva dalla parola “sessola”, che gli accademici della Crusca definiscono a pagina 277 del volume VI nel seguente modo: "Arnese scanalato da estrarre a mano l'acqua da barchetta e simile".

La sessolotta è per il solito una giovane, anzi una donna dai 14 ai 30 anni, la quale verso tenue mercede giornaliera di 15 a 20 carantani, passa i suoi giorni nell'oscuro fondo dei magazzini, in mezzo a balle di cotoni, a casse di zucchero, a sacchi di caffè, a barili e bariletti di fichi ed uva passa, a mazzi di pelli; in mezzo a monticelli di gomma arabica, di spugne, di drogherie e spezierie d'ogni sorta; sua incombenza è di nettare codeste merci, cardarle, lavarle, crivellarle, appurarle dalle materie eterogenee; per un'ipotesi, separare le spugne fine e piccole dalle grandi ed ordinarie, scegliere i limoni marci dai buoni, avvoltolarli in carta, riporli nelle cassette, depurare la gomma e così via.

La sessolotta è dotata in genere di molto brio; è allegra e vivace, e sino a certa età risparmia quel poco che può, per acquìstarsí due volte all'anno un fazzolettino od un grembiale, od un abitino, in cui poter figurare la domenica, a fianco dei suo "uomo" in qualche campagna dove si vende del buon vino.

Neí magazzini di merci, dove lavorano le sessolotte, regna sempre grande allegria, e quando non vi è presente il padrone, cantano, schiamazzano e se la discorrono gaiamente, scherzando più e meno liberamente coi giovani dello scrittorio.


Ognuno sta solo sul cuor della terra
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Messaggio da rofizal »

Le ultime quatro pagine che go apena riportado, le gavevo trasmese a suo tempo da una radio locale triestina, le famose (a l'epoca) "radio libere", de cui sarà el caso de spender qualche parola in altra sezion, perché me par poco se trovi in rede e i ricordi dela gente ormai va scomparindo.


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Re: I Misteri di Trieste

Messaggio da AdlerTS »

El touring club italiano ga organizzado
Incontri, trame e delitti celebri a Trieste tra il XVIII e XX secolo. Un itinerario guidato tra le vie della Cittavecchia ove personaggi illustri incrociarono i propri destini con quelli della città.
http://www.touringclub.it/eventi/dettag ... con-il-Tci

Il Friuli.it scrivi che
L’itinerario, che si snoderà tra il colle di San Giusto e piazza dell’Unità d’Italia, sarà scandito dalla lettura di cronache d’epoca e dall’ascolto di brani musicali relativi ai personaggi e alle vicende ricostruite.
e
alla scoperta di alcuni celebri personaggi [...] che, [...] hanno incrociato i loro destini con quelli della città di Trieste: nel 1728 Antonio Vivaldi incontra l’imperatore Carlo VI d’Asburgo recandogli in dono qualcosa di molto personale; nel 1768 viene misteriosamente assassinato Johann Joachim Winckelmann , [...] nel 1791 avviene il drammatico faccia a faccia tra Lorenzo Da Ponte e l’imperatore Leopoldo II d’Asburgo; nella seconda metà dell’Ottocento, ai tavolini del Caffè Tommaseo, si ritrovano i primi irredentisti triestini, tra i quali il patriota dalmata Nicolò Tommaseo, noto autore del primo Dizionario della lingua italiana.


Mal no far, paura no gaver.
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Re: I Misteri di Trieste

Messaggio da Nona Picia »

interessante!


Ciao ciao
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trova un minuto per ridere.
"MADRE TERESA"

"La Mama l’è talmen un tesor de valur che l’ha vorüda anche Noster Signur" .....

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