I triestini nei Carpazi : Przemysl e dintorni

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I triestini nei Carpazi : Przemysl e dintorni

Messaggio da rofizal »

Ve ripropongo sto topic che gavevo postado sul vecio forum, in data 15 Giu 2003, magari a qualchedun ghe pol interesar.

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Non so quanta gioventù della nostra zona abbia combattuto in questa località con l'esercito austroungarico e contro i Russi. Fatto sta che ho trovato delle vecchie foto (del nonno) che vi voglio proporre.

Anzitutto dove si trova Przemysl?
Attualmente si trova in Polonia, ai confini con l'Ucraina, come si può vedere da questa cartina, dove sono segnati gli attuali confini degli stati europei.

(continua...)
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Przemysl.gif


Ognuno sta solo sul cuor della terra
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Messaggio da rofizal »

Nella zona hanno sicuramente combattuto il 27° Reggimento di fanteria di Graz “KOENIG der BELGIER”, ma soprattutto la 12a Brigata di fanteria (Klagenfurt, con 3 battaglioni del 17°) facente parte della 6a Divisione di fanteria (Graz). Il Comando del 17° reggimento, II, III e IV battaglione aveva sede a Klagenfurt, il I battaglione a Lubiana. Sono dati un po' confusi, lo ammetto, ma sono quelli che sono riuscito a trovare.

Più precisi sono i seguenti:

I. e R. Reggimento di Fanteria N. 17
“RITTER von MILDE”
Area di reclutamento: distretto di Lubiana.
Deposito fino al 1915: Lubiana.
Componente etnica nel 1914: Sloveni 86% - Altri 14% (soprattutto tedeschi).
Componente etnica nel 1918: Sloveni (maggioritari) e Romeni.
Deposito nel 1918: Feldbach.
III Corpo d’Armata (Graz)


Vi do il particolare di una cartolina spedita dal nonno con il timbro del reggimento, di cui però non riesco ad indentificare l'appartenenza. Il suo indirizzo, scritto a matita nell'altra parte della cartolina, doveva essere, se riesco a leggere bene, IR I/97 Feldpost 63, il che farebbe supporre proprio il I° Battaglione di Lubiana.


(continua...)
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Przemysl4.jpg


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Messaggio da rofizal »

(continuazione)

"Nel 1914 Russi invadono la Prussia, ma, dopo i primi successi, Hindenburg li costringe a ritirarsi (battaglia dei Laghi Masuri, 9-14 settembre). In Galizia i Russi conducono due grandi offensive e gli Austriaci debbono abbandonare Leopoli ripiegando sui Carpazi. Dopo la prima offensiva russa i Tedeschi vengono in aiuto degli Austriaci tentando di accerchiare i Russi, che devono perciò abbandonare l'assedio di Przemysl."

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Nel settembre-ottobre 1914 avviene il primo assedio della città da parte dei Russi. In novembre il personale non necessario viene evacuato da Przemysl e nello stesso mese incomincia il secondo assedio.

Il 22 marzo 1915 i russi conquistano Przemysl che si arrende. La maggior parte delle fortificazioni viene distrutta e gli ebrei vengono espulsi dalla città.

Il 2 giugno 1915 gli austroungarici e i tedeschi riconquistano Przemysl.

Nell'ottobre 1918 viene proclamata l'indipendenza di Przemysl.

Nel novembre 1918 gli Ucraini conquistano parte della città, sulla riva destra del fiume San, presto sostituiti dai Polacchi.

Nel 1919 Przemysl entra a far parte della nuova nazione polacca.

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Queste le date principali che riassumono gli avvenimenti bellici ivi accaduti, a cui possiamo aggiungere quelli relativi al corpo austroungarico citato (17° Reggimento):

liberazione della fortezza di Przemysl dal primo assedio 08-12 ottobre 1914 e battaglie di ottobre-novembre

battaglie di dicembre sui Carpazi Beskidi

battaglia vittoriosa di Limanowa-Lapanw 01-13 dicembre 1914 ed inseguimento dei Russi a sud della Vistola

controffensiva russa in Galizia 21-24 dicembre 1914

scontri presso Gorlice di fine dicembre 1914).

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Per quanto invece riguarda il 27° reggimento di fanteria di Graz “KOENIG der BELGIER”:

"Il battesimo del fuoco avvenne in Galizia, nella battaglia di Zloczw del 26 agosto 1914 e lo stesso si distinse poi contro preponderanti forze nemiche nel corso della battaglia, durata sei giorni, vicino a Rawa-Ruska e Leopoli.

In ottobre il reggimento combattè presso Przemysl-Chyrow, dove ricevette l’ordine di ripiegare oltre il fiume San fino al passo di Dukla sui Carpazi. Dopo la conclusione vittoriosa della gigantesca lotta sui Carpazi il III Corpo d’Armata raggiunse la 7. Armata, duramente provata durante le battaglie del 1915, ed il 27° si meritò altri allori sul Pruth e sul Dniester. Il 9 agosto 1915 prese parte all’assalto contro la testa di ponte di Czernelica."

Questo Reggimento andrà poi a operare sul fronte carsico. Ma, come detto, quello che più ci può interessare è il 17° Reggimento.

A puro titolo informativo ricordiamo che il 23 maggio 1915 l'Italia dichiarava guerra all'Austria.

Ecoo ora una foto che documenta la dura battaglia di Przemysl.

Bibliografia:
http://www.centroricerchearcheo.org
http://www.nationalarchives.gov.uk/pathways/default.htm


(continua...)
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Przemysl2.jpg


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(continuazione)


Una veduta della città di Przemysl.


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Przemysl1.jpg


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Ed una del cimitero di guerra dove, tra molti caduti senza nome, vi potrebbero essere altri triestini e sloveni.


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Przemysl3.jpg


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(continuazione)

Ecco ancora alcune foto originali (e inedite) che devono esser state fatte o a Przemysl o comunque sul fronte russo.

(continua...)
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Difesa con la mitragliatrice.
Difesa con la mitragliatrice.
Soldati all'opera attorno a un mortaio.
Soldati all'opera attorno a un mortaio.
Una fase di attacco.
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Ancora qualche foto.

Anche se sono fatte sul fronte russo, queste foto possono rendere l'idea di quello che era sul Carso, dove doveva essere ancor peggio, visto l'ambiente pietroso.

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Un cannone o obice o mortaio.
Un cannone o obice o mortaio.
Sotto il fuoco nemico.
Sotto il fuoco nemico.
All'attacco.
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Le ultime tre foto.


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Chi è nell'auto?
Chi è nell'auto?
Bombardamento aereo?
Bombardamento aereo?
fronterusso10.jpg


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Da Golfoblu
Inviato: Sab, 08 Gen 2005 22:00
La storia che conosso de nonno (papà de mama); xe stado aruolado nel'Esercito Austriaco, e come parenzan de lingua italiana, mandado sul fronte russo nel 1915, lui iera classe 96, precisamente 4 agosto. Fato prigioniero dai Cosacchi, messo al "muro" per esser fucilado, quando un uficial ga domandà a tuti lori de dove i iera; nono xe stado salvado dovù ala sua origine "italiana". Dopo de questo, ga fato la prigionia (no so per quanto tempo), e dopo el xe andà a lavorar in una comunità de agricoltori. El xe tornà a casa nel 19, me par. Zio, più che mama, ga ancora letere de quei anni, e una foto de nono vestido de russo, col tipico bereto, roba che el vestiva quando xe tornà a Parenzo. Go domandà altre informazioni, che apena in man le scrivo sul sto thread.


Da Desert RAT
Inviato: Sab, 08 Gen 2005 22:04
Anche mio papà de Visinada el xe stado mandado al fronte russo.


Da Sergio
Inviato: Dom, 09 Gen 2005 02:14
Mio nonno materno iera de classe 1893. Dei cosacchi me racontava che i iera teribili, i fazeva dele cariche a caval menando colpi a destra e a manca de scimitara, sciabola o cosa so mi, e imagino taiando più de qualche testa.
No xe facile trovar foto de cosachi su internet, almeno de lori in azion. Evidentemente chi subiva una loro cariga gaveva altro a cui pensar che far foto. Comunque queste due rendi un poco l'idea.


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cosacchi1.jpg
cosacchi2.jpg


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duralex
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Messaggio da duralex »

Le foto di Rofizial dovrebbero essere del '14, credo. Infatti i soldati hanno ancora il berretto e non l'elmetto, neanche quello di cuoio austriaco. Mi pare di ricordare che l'elmetto di acciaio fu dato in dotazione non prima del'15, infatti. Correggetemi se sbaglio.


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Da AdlerTS
Inviato: Lun, 16 Mag 2005 10:52
In libreria Svevo go trovado un libretto intitolado "Una bella e grande Rosa" de Riccardo Muner Sr.
Xe el piccolo diario de sto triestin classe 1898 mandado in russia.

La distribuzion xe curada dal fio, oggi militar de carriera.

Riccardo non iera un poeta e non ga scrito pagine memorabili, però el diario xe un piccolo quadretto scritto coi oci de un adolescente che va in guera. Completo de foto originali. Per 7 euro se pol senz'altro ciorlo.

Notar che el fio ga voludo lassar anche quei errori tipici dell'italian parlado a Trieste in pricipio de 900, tanto per render de più l'atmosfera (gnianche Svevo non se salvava ...)


*** FINE ***

Specifico che le foto no xe de publico dominio!
Chi, per qualsiasi ragion, volesi usarle devi rivolgerse ai autori (se le xe mie, cioè fate da mio nono, tramite questo sito).

Nota: gavevo tralsado de riportar el toco iniziale del topic, ma forsi xe utile specificar che mio nono probabilmente iera stado incorporado in quel bataglion perché gaveva frequentado el liceo de Lubiana.


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Messaggio da rofizal »

duralex ha scritto:Le foto di Rofizial dovrebbero essere del '14, credo. Infatti i soldati hanno ancora il berretto e non l'elmetto, neanche quello di cuoio austriaco. Mi pare di ricordare che l'elmetto di acciaio fu dato in dotazione non prima del'15, infatti. Correggetemi se sbaglio.
Interessante, non lo sapevo.
Da parte mia non posso aiutare perché sulle foto, che ricordi, non c'è alcuna data (altrimenti l'avrei riportata).


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Avevo anche riportato in data 08 Gen 2005, in altro topic, il testo di una conferenza che si collegava come argomento. Mi pare opportuno metterlo qui sotto senza creare una voce nuova.

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Quando se posiedi una discretamente ben fornida biblioteca, sopratuto se se la ga ereditada da genitori, noni etc., ben dificilmente se gaverà leto tuti i libri che la contien, vuoi perché i xe scriti in una lingua che no se conosi, perché l'argomento sembra no eser de nostro interese, o semplicemente per mancanza de tempo. Speso se varda la sola copertina, se ghe dà una sfogliada superficiale o se se limita a leger qualche frase qua e là.

Cusì pol eser che tante volte, ripreso in man qualche "tomo", gavemo dele bele e simpatiche sorprese. Xe quel che me sucedi ogni tanto e xe el caso de questo libreto intitolado "Prigionia in Russia" e scrito da Silvio Viezzoli. Costituido da 58 pagine con poche foto in bianco e nero, xe el testo de una conferenza tignuda a Belluno nel 1928, in piena era fascista.

Nonostante el clima de quei tempi, la retorica xe quasi del tuto asente, e merito va a l'autor per aver riportado con aparente grande sincerità e obietività, dei ricordi che devi eser stadi comuni a molti triestini e istriani, alcuni dei quali purtropo no xe mai tornadi a casa.

Credo quindi sia doveroso cercar de riportar integralmente su sto forum quel che Viezzoli ga racontado in quela conferenza, sperando che ghe posi anche eser de conforto a chi gaveva dei parenti de cui ghe xe ormai rimasto solo un lontano ricordo, se mai li ga conosudi. De sopravisudi, considerando che i dovesi eser nati almeno ala fine del '800, credo che ormai ghe ne sia sai pochi, perché i dovesi aver più de 104-105 anni.

Naturalmente, nela conferenza, tuti le persone de madrelingua italiana che gaveva partecipado ala prima guera combatendo per l'Impero, i risulta averlo fato controvoia (ma chi va volentieri in guera?), perché no podeva eser altrimenti, tuti "doveva" eser per l'Italia. Concedemo pur questa, come za dito, retorica scontada, perché el resto xe veramente interesante e apasionado.

(tratandose no de una publicazion uficiale, ma solo del riporto de quanto dito nela conferenza, no dovesi eser problemi de copyright)


"Prigionia in Russia"
by Silvio Viezzoli

(Conferenza tenuta a Belluno nel 1928)

Il 22 marzo 1915 cadeva in mano dei Russi, dopo circa sei mesi di assedio, la fortezza galiziana di Przemysl. Allora tutte le forze russe, che prima erano impiegate nell'assedio, furono lanciate contro la linea austriaca dei Carpazi che dovette cedere, e così, sia pur per breve tempo, i Russi poterono riconquistare una parte di quel territorio ungherese che già avevano occupato nel '14, seminando di croci le pendici meridionali di quei monti, specialmente intorno al passo di Dukla, famoso per le battaglie ivi combattute.

Fra i soldati che avrebbero dovuto impedire l'avanzata russa c'erano anche italiani. Questo non deve far meraviglia, poiché non tutti gl'italiani dell'Austria avevano avuto la fortunata possibilità di fuggire in Italia; la maggior parte dovettero indossare l'odiata divisa, e, mescolati con Tedeschi, Slavi e Ungheresi, partire per i vari fronti di guerra, dove molti trovarono la morte che sarebbero stati degni come altri e anche più di qualcun altro di combattere e morire per l'Italia che amavano e che consideravano loro vera patria. Se grande conforto è per il soldato il pensiero che il suo sacrificio non sarà ignorato o dimenticato dai suoi concittadini, consideriamo quale doveva essere lo strazio di quelli che il loro sacrificio vedevano inutile o atto a ribadire le catene con le quali l'Austria teneva asservito il loro paese. A questi, doppiamente infelici, perché morti nel corpo e morti anche nella memoria, fuorché dei pochi che li conobbero e delle loro famiglie, mandiamo un mesto saluto. Per essi si possono ripetere gli accorati versi del Leopardi:

«Moriam per le rutene squallide piagge,
ahi d'altra morte degni, gl'itali prodi'.»

e quelli:
«0h misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari,
Ma da nemici altrui,
Per altra gente, e non può dir morendo:
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.»


Con quale animo noi italiani aspettavamo l'assalto dei Russi? Per noi, che non avevamo potuto rifugiarci in Italia, questa poteva essere l'occasione buona per passare dall'altra parte. La prima domanda che si faceva a un amico, giungendo al fronte, era: Come si fa a scappare? (Ricorrere ad autolesioni per essere rimandati indietro era diventato pericoloso; parecchi erano stati scoperti e fucilati.) La risposta era: aspettare un'azione in grande stile, e durante una eventuale ritirata nascondersi in una casa o in un bosco e rimanere indietro. Questo dunque ci apprestavamo a fare se le pallottole o gli «shrapnels» ci avessero risparmiati.

E i Russi cominciarono a calare giù dal monte sempre più numerosi e gli Austriaci a sparare dal monte opposto.

Si vide a un tratto un soldato russo correre innanzi solo sulla neve, parecchi «Scharfschuetzen» lo presero di mira, e lui si buttò a terra. Ah ah, si congratulavano fra di loro, l'abbiamo colpito «der Kerl»; ed eccolo invece dopo un poco alzarsi e correre un altro tratto; e quelli a guardarsi scornati e puntare di nuovo il fucile e sparare; quello di nuovo a terra. Ah, questa volta, dicevano, non si alza più. Ma il russo tornò ad alzarsi altre volte e a continuare la corsa. Era una cosa alquanto ridicola, ma la situazione era troppo seria perché si potesse ridere.

Durante la notte i Russi occuparono due villaggi nella valle sotto di noi (eravamo sui Carpazi Beschidi a sinistra del Dukla). Nell'oscurità delle notti precedenti avevamo sentito i pianti e i lamenti dei poveri contadini evacuati. Questi villaggi diventarono allora il bersaglio delle artiglierie austriache, e tutte le case furono in poco tempo completamente incendiate, che vi si potevano contare le travi. La notte ne era sinistramente illuminata. I lampi e i fragori degli scoppi aumentavano la fantastica terribilità della scena. Soltanto coloro che ne hanno visto di simili se ne possono fare un'idea adeguata. Ma non è mio compito descrivere le vicende della battaglia e i pericoli corsi; ciò mi porterebbe troppo lontano.

La mattina del 25 marzo, prima del levar del sole, quando meno ce l'aspettavamo, ecco che i Russi hanno passato i reticolati a sinistra delle nostre posizioni, hanno rotto la linea e conquistato le trincee. Allora avvenne una fuga generale. Tutti saltarono fuori dalle trincee gettando via il sacco, qualcuno anche il fucile, tutto quello che avevano per essere più leggeri. In quella confusione mi misi a correre anch'io assieme agli altri. Mentre correvo, pur con la paura in corpo delle pallottole che ci fischiavano intorno, pensai che avrei potuto dire di aver visto i Tedeschi a fuggir. Tante volte avevamo cantato (perfino, non dirò coraggiosamente ma temerariamente durante la guerra e in divisa austriaca in qualche caffeuccio di Graz): «Hai tu veduto i tedeschi a fuggir?», che questa mi pareva una gran bella soddisfazione. Poi mi accorsi di essere rimasto indietro e di essere solo, e allora pensai che quello era il momento buono per arrischiare di fermarmi, perché altrimenti chissà quando se ne sarebbe presentata un'altra occasione. Mi buttai a terra perché ero stanco non soltanto per la corsa ma anche perché non avevo dormito tutta la notte; e poi potevano sopraggiungere altri austriaci; nel qual caso avrei dovuto fare di necessità virtù e continuare la fuga. Mi passarono invece a poca distanza alcuni soldati russi, che non mi guardarono nemmeno; inseguivano i fuggenti col fucile spianato e gridando «alt». Poi da un anfratto del terreno ne sbucarono altri due, e a questi feci subito manifesti segni di resa; si teneva sempre pronta una pezzuola bianca.

Così ebbero inizio le mie prigioni.

Devo chiedere scusa se parlo di me; lo farò il meno possibile, ma il mio discorso è fatto di ricordi personali. Parlare in generale delle vicende di tutti gl'italiani fatti prigionieri dai Russi nei quattro anni della guerra e dispersi su tutto l'immenso territorio russo, sarebbe argomento che richiederebbe molti volumi, appena accennabile nel breve tempo concesso a una conferenza; mi devo restringere a dire sommariamente quanto ricordo ancora, dopo i parecchi anni ormai passati, di ciò che vidi io stesso.

Ho detto «così ebbero inizio le mie prigioni», ma non ho detto come; il principio fu alquanto drammatico, poichè uno dei due soldati non voleva saperne di resa e mi venne sopra per infilzarmi con la sua baionetta. Mi vidi a un palmo dal petto una di quelle baionette russe lunghe lunghe nere della forma di quelle dei nostri carabinieri, ed era anche sporca di fango. In quel terribile istante lo pregai di essere buono, ricorrendo alle mie poche cognizioni di lingua slava. Allora l'altro, che doveva essere suo superiore, caporale o sergente, lo trattenne con un gesto del braccio e dicendogli: «stoj». Questa prima parola che udii da labbra russe mi salvò la vita. Ritengo che mi abbia risparmiato credendomi uno slavo. Da questo si vede quanto è importante lo studio delle lingue! Poi mi dispiacque di aver commesso un errore di grammatica!

I due, dopo aver gettato lontano il mio fucile, mi lasciarono per inseguire i nemici. Io mi alzai da terra e andai incontro a un altro soldato che era sopraggiunto con intenzioni niente affatto ostili; ci stringemmo cavallerescamente la mano e diventammo subito amici; forse lui non cercava di meglio che un prigioniero per poter tornare indietro. Insieme ci avviammo verso le linee russe; il terreno era tutto cosparso di munizioni di sacchi di badili di zappe di oggetti d'ogni specie; qua e là gemeva qualche ferito. Mi vide un tedesco della mia compagnia; mi chiamò per nome, e porgendomi il pacchetto delle bende, mi disse: «Tu mich verbinden». Era stato colpito da una pallottola alle reni. Non c'era foro d'uscita; lo bendai meglio che potei, e gli dissi di star lì senza muoversi, e aspettare che venissero a prenderlo.

Il soldato russo si fermava spesso ad aprire i sacchi per portar via specialmente roba da mangiare, scatole di carne in conserva, caffè, biscotto; io invece avevo una gran voglia di allontanarmi di là più che fosse possibile, perché intanto gli austriaci dalle seconde linee avevano messo in azione le mitragliatrici, e da un'altra parte tuonava il cannone; avevo paura di ricadere in mano austriaca. Per far più presto aprivo anch'io i sacchi e gli consegnavo tutto quello che trovavo, ma egli m'invitava a mangiare ripetendomi «kusciaj, kusciaj». Io non avevo voglio di mangiare, ma per accontentarlo misi in bocca qualchecosa, e mi riempii il tascapane.

Dirò che m'immaginavo d'essere il solo prigioniero della giornata, o almeno uno di pochi, chissà, sei sette una quindicina una ventina! Appena dietro le linee ci avrebbero messo in un bel vagone, se non proprio di prima classe almeno di terza, e spedito in qualche bella città, forse a Mosca! Il mio desiderio non andava più in là.

Ma le cose non stavano proprio in questi termini. Prima che arrivassimo alle abbandonate trincee austriache, ecco arrivare gruppi di prigionieri, venti di qua, cinquanta di là, cento da più lontano, piovevano da tutte le parti. Dovetti unirmi a un branco e perdei di vista il mio amico. Stavamo per mettere piede in un campo minato, quando fortunatamente fummo avvertiti del pericolo con alte grida da un gruppo di ufficiali austriaci prigionieri, che si trovavano su di un poggio. Salimmo la costa della collina dove erano le trincee russe. Il terreno aperto e tutto bianco di neve mi dimostrò l'impossibilità di una fuga; e in quelle notti ch'ero andato di pattuglia fuori dalle trincee ero in compagnia di tedeschi.

Arrivammo ai reticolati; un soldato russo, uomo sulla quarantina, ci tenne abbassati col piede i fili per agevolarci il passaggio, e ci chiamò «brati». Ci sdraiammo a terra per riposare, e n'avevamo davvero bisogno. Uno che mi giaceva vicino si rivolse a me dicendo: «Ara el caporal dela marod», Queste parole vogliono una spiegazione. Calata la notte ci portavano in linea la cena, che era anche pranzo, col vino, del quale io non potevo sopportare neanche l'odore. Ma una volta volli sforzarmi a berlo; mi causò un gran dolor di ventre, e la mattina mi annunziai malato; fui accompagnato a una rustica casetta che serviva da ospedale;
per la strada già pensavo che sarei stato rimandato indietro, forse fino a Trieste o addirittura a casa. Poiché la casetta era molto lontana vi arrivai nel pomeriggio; quella notte dormii in un fienile, e la mattina seguente alla visita l'ufficiale medico, ascoltate le mie lagnanze, mi diede appena un'occhiata e mi rimandò senz'altro in trincea. Per la verità devo dire che non sentivo più nessun dolore. Ritornando malinconicamente verso il mio buco, lungo una fila di ricoveri in legno che quei soldati s'erano costruiti, mi fermai a chiacchierare un poco con un italiano senza dirci i nostri nomi. Era quello che ora mi parlava. Ci presentammo; lui era Ariberto Smareglia, figlio del musicista. Diventammo amici e passammo insieme tutto il tempo della prigionia a Troisk a Taskent a Orloff a Kirsanoff. Fu per sua spinta, perché a me dispiaceva di farlo, che vendei l'orologio d'argento, regalo della cresima, a un soldato russo che si aggirava fra di noi e comperava ogni sorta di oggetti. Ci vennero distribuite delle cartoline e così potemmo subito scrivere alle nostre famiglie.

Cominciò la marcia attraverso le digradanti colline della Galizia. Mezza Austria che andava in Russia. «Oesterreich rueckt nach Russland vor» dicevano i Tedeschi che non parevano malcontenti di essere prigionieri. Pure io ricordo di aver provato un senso di umiliazione davanti a quei Polacchi che ci guardavano passare; erano poveri contadini che ci offrivano dieci uova per venti centesimi.

La neve cominciava a sciogliersi; dappertutto fango e pantano; dopo un lungo periodo di trincea si camminava a stento; mi trovavo spesso in coda alla colonna. I cosacchi che venivano dietro ci spingevano talora in malo modo coi calci dei fucili, e ai nostri lamenti rispondevano che se avevamo avuto la forza di sparare («a streliat vam mozno» ) dovevamo avere anche quella di marciare. A questo bel ragionamento c'era poco da replicare.

Non mi è possibile descrivere tutto ciò che vidi quel giorno dietro la linea russa: il movimento fantastico dei carri, lunghe file interminabili che portavano al fronte munizioni e viveri, e di quelli che portavano indietro i feriti; e le truppe che andavano al fronte con bastoni, perché non c'erano più fucili; si sarebbero armati con quelli dei caduti o tolti ai nemici; volevano scambiare le loro borracce di vetro con le nostre di alluminio. C'erano poi reggimenti formidabili di cavalleria cosacca che aspettavano l'ordine di avanzata, e tante altre cose interessanti e grandiose.

Si dormiva nelle case abbandonate, nei fienili, nelle stalle, mal difesi dal freddo e dalla pioggia, o nelle città in edifici pubblici, come a Jaslo nell'aula del tribunale, ridotta da truppe che ci avevano preceduto in uno stato che il tacere è bello. La marcia cominciò a sembrare più faticosa quando si videro stazioni e linee ferroviarie. In una località, di cui non ricordo il nome, pareva volessero, come si diceva, «invagonarci», ma ecco capitare un aeroplano e gettare una dopo l'altra tre bombe sulla stazione. Così bisognò camminare ancora. Passammo per la città di Rzeszow, che era la domenica delle palme; i contadini si recavano in città con rami non d'olivo, s'intende, ma d'altre piante. Giungemmo, dopo sei o sette giorni, alla cittadina di Przeworsk. Qui c'era chi diceva che si sarebbe dovuto andare a piedi fino a Leopoli; dieci o dodici giorni di marcia; c'era da spaventasi! Ma per fortuna non fu così. Qui salimmo sul treno che ci doveva portare lontano.

Ed ecco ora l'Austria, che pareva tanto solida e omogenea al di là delle trincee, cominciare a scomporsi in diverse nazionalità; Polacchi con Polacchi, Cechi con Cechi, Croati con Croati, Italiani con Italiani, ecc., e tutti naturalmente a parlare la loro lingua. Qualche tedesco cercò timidamente di protestare con un «deutsch reden» ma dovette ben presto tacere se non voleva buscarle; mancò poco invero che specialmente tra slavi e tedeschi non venissero alle mani.

Intanto il treno correva attraverso la Polonia russa; eccoci a Lublino; e dopo ecco la città di Brest-Litowsk, diventata poi famosa per la pace separata dei bolscevichi con la Germania. Si attraversava la sterminata pianura per boschi e paludi. Per di là Napoleone aveva trascinato la grande armata; mai come allora l'impresa m'era sembrata temeraria e incredibile; le città a distanze grandissime, ore e ore si correva senza incontrare villaggi o case. Al di là di Minsk siamo alla Beresina. Arrivammo e ci fermammo anche a Smolensk, poi Borodino e la Moscova. Siamo ormai a Mosca, nel cuore della santa Russia. «Vsiò Rossii» dicevano i soldati della scorta indicandoci in giro il lontano orizzonte. Girammo con la nostra tradotta intorno a tutta la città, e così avemmo occasione di ammirarne la bellezza dei dintorni, tutti sparsi di magnifiche ville in mezzo a deliziosi boschetti. Era una bella giornata d'aprile, e donne e ragazzi uscivano a soleggiare sui prati dove la neve cominciava a sciogliersi.

Intanto noi si domandava se ci avrebbero sbarcato; ma non pareva; passammo la notte nel treno. L'indomani si cominciò a sentir dire che si continuava. «Andiamo a Penza», dissero i soldati russi, «ancora tre giorni», E allora avanti, ancora per tre giorni. Ma, arrivati a Penza, si disse che bisognava continuare fino a Samara; avanti per altri tre giorni. Passammo sopra il lunghissimo ponte del Volga (o della Volga, giacché i Russi lo chiamano «matjuska Volga»: la mamma Volga) presso Sizran, fra Staro- e Novo-Kostici. Giungemmo a Samara, e vi ammirammo il bel porto, pure sul Volga, che là è tanto largo che sembra un mare. Qui di nuovo ci fu detto che si andava ancora per alcuni giorni fino a Orenburg sul fiume Ural; altri dicevano: no, andiamo in Siberia.

Non lontano da Samara c'è una piccola cittadina, di cui mi sfugge il nome, ma la cui stazione è invece molto importante perché è il capolinea della Transiberiana. Là è il grande bivio: da una parte, verso nord-est, si va a Ufa Celiabinsk Omsk; dall'altra, verso sud-est, a Orenburg e nell'Asia centrale. Prendemmo per questa. Dopo qualche giorno eravamo a Orenburg. Da queste parti incominciammo a vedere i primi cammelli, colà adoperati dai contadini per i lavori dei campi; avevamo attraversato parte delle famose «terre nere» (il «cernosiom») ricche di frumento; si vedevano i seminatori spargere con largo gesto il seme nei solchi. Ma dopo Orenburg cominciò a delinearsi la steppa. Non potei ammirare il panorama dei monti Mugogiar, continuazione meridionale degli Urali Selvosi, perché vi arrivammo che annottava. Ricordo d'aver provato un misto di piacere e di meraviglia nel ritrovare finalmente dei monti dopo tanto immenso territorio piano oltrepassato, coll'orizzonte da ogni parte a perdita d'occhio, e sul quale vedevamo ogni mattina sorgere il sole da una parte per descrivere un magnifico arco nel cielo fino al tramonto in mezzo a vapori rossastri dall'altra parte. La mattina dopo ci svegliammo in piena steppa nel paese dei Kirghisi. Ecco delle vele, ecco delle enormi barche in lontananza. Dove siamo? E' il lago di Aral. Eccoci giunti a una piccola ma linda stazione proprio sulla riva del lago; si chiama appunto stazione di Aralskoje morje (mare di Aral). Scesi dal treno e corsi a immergere le mani nell'acqua.

Poi il treno corre per un tratto lungo la riva del gran lago. Lasciato questo giungemmo a Kazalinsk sul Sir-Daria, prima grande stazione del Turkestan russo, e poi a Perovsk e a Turkestani. Correndo attraverso l'immensa steppa deserta non si vedevano a grandi distanze che le tende rotonde dei Kirghisi nomadi. Ogni tanto lungo la linea qualche piccolo recinto, e infissi nel terreno dei sassi rozzamente scolpiti, con sopra qualche testa d'animale: sono i loro cimiteri e le loro tombe.

Lungo quasi tutto il tratto poi una enorme quantità di tartarughe, e spesso non so che animali rassomiglianti alle marmotte si alzavano sulle zampe posteriori, e stavano immobili a contemplare il treno finché non era passato.

Alla fine, diciotto giorni dopo la partenza da Przeworsk, eccoci giunti alla meta: il pomeriggio del 18 aprile eravamo a Taskent, capitale del Turkestan. Ci meravigliò un poco il vedere nei pressi della stazione molta gente che passeggiava vestita elegantemente sul figurino di Parigi; ma erano russi, in maggioranza signorine, abitanti della città europea. «Jesciò'» (ancora! ) udii esclamare nel veder giungere quella gran massa di prigionieri, dopo molti altri arrivati precedentemente, e dopo gli altri trasporti di quei giorni, taluni dei quali non si fermarono a Taskent, ma proseguirono per Samarcanda, Merv, Ashabad. Coll'arrivo a Taskent non era però finito il nostro viaggio. Alla maggior parte venne l'ordine, verso sera, di partire per un accampamento presso un villaggio, chiamato Troisk (o Troiskoje Selò), una trentina di chilometri a sud-est di Taskent, vicino a un fiume affluente del Sir-Daria. La marcia la facemmo la notte stessa e il giorno seguente, ed è, per me, uno dei più bei ricordi della prigionia. Devo dire che la steppa cessa prima di Taskent; questa città è situata nel mezzo di una grande oasi ricca di una lussureggiante vegetazione. Era una notte tranquilla e serena, quasi calda, come potrebbe essere da noi una notte di piena estate; alti alberi si elevavano ai lati di un'ampia magnifica strada, in cielo brillavano le stelle, l'aria pareva impregnata di profumi. Ogni tanto ai lati qualche casa degli indigeni Sarti, coi caratteristici sporti e ballatoi: mi pareva di trovarmi nel paese delle «Mille e una notte».

A Taskent però in quei giorni, forse in quel giorno stesso, erano arrivati anche molti dei prigionieri di Przemysl, uomini anziani per lo più sui quarant'anni; anche tra questi c'erano italiani, alcuni mi conoscevano; e allora cercai di unire possibilmente tutti gl'italiani in una sola compagnia, ma nella confusione e nella ristrettezza del tempo non potei riunirne che forse venticinque o trenta; invece da un maggiore russo fui incaricato di guidare e comandare un centinaio di uomini; la maggior parte naturalmente erano di altre nazionalità; ai miei ordini doveva esserci una scorta di quattro o cinque soldati russi; così ero diventato uno «starsi», parola che veramente significa vecchio, ma nell'esercito russo è un grado che corrisponde suppergiù al nostro sergente.

Camminavamo con un anziano caporale russo in testa alla colonna; egli chiacchierava molto e dagli slavi era inteso, ma io potevo capire solo qualche frase e cercavo di rispondergli alla meglio; perciò usciva ogni tanto in questa esclamazione: «Dobri starsi a pa ruski ne znade» (buono il nostro starsi ma il russo non lo sa!).

Intorno alla mezzanotte facemmo alt, e tutti si adagiarono per dormire ai margini della strada, vicino ad alcune case di Tartari. Sul più bello che stavo per prendere sonno sento gridare «starsi starsi»: è il caporale che vuole invitarmi a un tè in casa di un tartaro, che i soldati avevano svegliato e costretto ad alzarsi. E così entrammo in una stanza, o piuttosto spelonca, a pianterreno; nella semioscurità ci sedemmo in circolo per terra con le gambe incrociate su delle stuoie, io, i russi e due Sarti o Tartari. Il tè era amaro e il pane cattivo, ma dovetti fare buon viso a cattivo giuoco.

Sul far del giorno riprendemmo la marcia.

I soldati aizzavano qualche ragazzo russo a gettare secchi d'acqua addosso ai poveri contadini indigeni che lavoravano la campagna, al solo scopo di farci ridere; e poi essi stessi per darci lo spettacolo del terrore di quei poveri diavoli, li rincorrevano con la baionetta innestata. I Russi sono per certi rispetti un popolo bambino, e hanno quindi dei bambini le ingenuità, e anche le crudeltà senza essere cattivi.

Ma uno dei soldati dava continuamente noia anche a me. Era successo che prigionieri del mio gruppo, durante la notte, s'erano uniti ad altri gruppi che passavano, perché vi trovavano amici o compatrioti, e altri erano rimasti indietro. E quel soldato si rivolgeva a me per farmi capire che non erano tutti; bisognava fermarsi, e allora lui si metteva a contare: adín dva tri cetiri...; ce n'erano forse cinquanta o sessanta, e mi faceva il conto sul viso con le dita aperte; e io a tentare di fargli intendere che non potevo farci nulla, che avesse pazienza che sarebbero arrivati su lo stesso. Quando fummo all'accampamento dovetti fermarmi e supplicare di unirsi a noi tutti quelli che man mano venivano alla spicciolata, e finché non fu raggiunto il centinaio non ebbi pace.

Voi penserete che lassù ci fosse qualche ufficiale russo ad attenderci, qualcuno insomma che ci mettesse a posto. Neanche per idea. I soldati di scorta se ne andarono per i fatti loro; e noi rimanemmo là soli sdraiati sull'erba ad aspettare. Ma quando era già sera, e nessuno s'era fatto vivo, allora pensammo ai casi nostri, e cominciò la corsa all'assalto della migliore baracca; queste erano molto distanti fra loro; e quando, dopo averne occupata una, si aveva notizia che in un'altra posizione più bella ce n'era una migliore ancora disponibile, corri di nuovo verso di questa, per paura che altri la occupassero prima di noi. Ci fu detto che in queste baracche avevano alloggiato fino a qualche anno prima prigionieri giapponesi della guerra del 1904-05.

Finalmente in una baracca, o dirò meglio tettoia, giacchè erano semplici tettoie completamente aperte ai due lati, ci trovammo a essere da una parte tutti italiani e dall'altra tutti polacchi. E mangiare? Niente per quel giorno, e neppure per altri due giorni dopo, se qualcuno non aveva con sé un pezzo di pane. Le cucine per noi dovevano appena essere fabbricate, e s'intende che dovevamo fabbricarcele noi. Finché queste non fossero pronte, e finché il comando non avesse avuto di tutti i nuovi arrivati le liste dei nomi distribuiti per ciascuna tettoia e divisi in decine, non ci avrebbero dato da mangiare. Bisognò mettersi all'opera subito il giorno dopo; alcuni costruirono le cucine; altri si offersero come cuochi, altri incominciarono a contare i prigionieri, a ordinarli, a scriverne i nomi per portarli al Comando. Finalmente anche questo cominciò a funzionare. Ma ricordo d'essere andato il terzo giorno alla baracca dei soldati russi a implorare; ed essi per compassione ci gettavano qualche pezzo di pane e di carne.

L'accampamento era costituito da un'ampia distesa di terreno, che ci voleva un'ora per attraversarla in tutte le direzioni, tutta circondata da corsi d'acqua; su due ponti all'estremità una sentinella. Entro questo spazio eravamo liberi di muoverci e girare quanto ci pareva. Sicché né io né i miei compagni di prigionia, credo, lo abbiamo visto tutto. Chi poi voleva uscire per andare al villaggio, ch'era a dieci minuti o un quarto d'ora da uno dei ponti, poteva fecilmente ottenerne il permesso dal Comando, oppure corrompere con pochi kopeki la sentinella o eluderne la vigilanza. Come si vede non era difficile corrompere le sentinelle; anzi si diceva che allora in Russia si poteva pagando ottenere tutto ciò che si voleva; che nel Turkestan i viaggiatori che pagavano il biglietto del treno erano una minoranza; che la maggior parte viaggiava comodamente e meglio degli altri dando una grossa mancia a un capotreno o a un controllore. Era vero? Certo noi non potevamo verificarlo, ma - si licet parva componere magnis - la cosa aveva parecchio del verosimile.

In generale però non c'era necessità di andare fuori dall'accampamento. Dentro di esso era stata aperta una specie di osteria, dove si andava specialmente la sera a bere il «Kvas» o qualche altra bibita; chi disponeva di qualche soldo in più poteva anche mangiare qualche cosa. Lì avevamo combinato un teatro all'aria aperta senza bisogno di palcoscenico: spettacoli d'ogni sorta; c'era un contorsionista e un finto atleta dall'enorme muscolatura; e poi si cantava e si suonava; c'era un triestino con una bella voce baritonale; altri si erano procurati mandolini e chitarre; venivano naturalmente anche prigionieri di altre nazionalità; fra questi un tedesco, artista di caffè-concerto, che ci dilettava con le sue buffonate.

Quando erano circa le dieci, prendevamo, sotto gli alti alberi fronzuti che formavano quasi una galleria, la via della nostra tettoia per metterci a dormire. Solo una sera questo pacifico e dilettoso ritorno sotto la luna e le stelle si cambiò in una fuga precipitosa. Una decina di cosacchi a cavallo, che prima d'allora non avevamo mai visto nell'accampamento, dopo d'essere stati un po' di tempo fermi a guardarci, mossero i cavalli come per venirci addosso, chi sa perché, proprio mentre si era sul più bello della serata. Da ciò il panico e la fuga.

Erano sorte anche altre baracchette di vendita, dove si andava a comprare la «kleba» (il pane), certe forme di pan bianco che si chiamavano «bulke», e altre cose necessarie. Alla mattina poi per tempo entravano nell'accampamento le contadine con le loro ceste, e portavano latte e uova; ma bisognava prima mettere loro in mano il denaro, altrimenti non si fidavano a darci nulla; e per certi tipacci che purtroppo erano con noi non avevano tutti i torti; «genghi, genghi» (denari) strillavano.

Ma chi ci dava i denari? I Russi non ci diedero mai un soldo (s'intende a noi della bassa forza, perché gli ufficiali erano ben pagati). Eppure, io stesso me ne meraviglio talvolta, qualche kopeko in tasca non mancava mai. Intanto fin dal primo giorno del viaggio avevamo cominciato a vendere tutto ciò che si poteva: orologi anelli catenine d'oro e d'argento e altri oggetti erano tutti passati in mano agli Ebrei in Polonia. Poi si cominciò a vendere indumenti; i capistazione nelle piccole fermate compravano scarpe pellicce coperte; certo ci guadagnavano molto. Tutto si trasformava in pane; dopo la dura, nera e scarsa pagnotta della trincea, il vedere quei grandi pani di farina bianca ci avrebbe fatto vendere anche l'anima. C'erano poi quelli di Przemysl che avevano messo insieme dei soldi, perché nella fortezza assediata non avevano avuto la possibilità di spendere, e ne prestavano a chi non ne aveva; altri s'erano dati al piccolo commercio di generi d'ogni sorta; altri, specialmente più tardi, poterono ricevere qualche vaglia da casa per mezzo della Croce Rossa.

Di solito non ci davano da lavorare; raramente qualche squadra dei nostri era comandata per qualche lavoro. Si passava il tempo a preparare il tè, a giocare a scacchi o a dama, o in certe altre iniziative per cercare di stare più allegri che fosse possibile; si andava anche a bagnarsi nel fiume, o a pescare lungo le rive; nei pomeriggi, quando il caldo era insopportabile, ci si buttava all'ombra a dormire. Il termometro arrivava al sole fino a quasi sessanta gradi; si andava vestiti come gli africani nel centro dell'Africa. Nel Turkestan si ha un periodo di piogge, quindici o venti giorni, in marzo; infatti quando arrivammo il terreno era ancora molle e fangoso; e poi un altro periodo di ugual durata in novembre. Ma in tutto il tempo ch'io stetti nel Turkestan, dall'aprile all'ottobre, non si vide mai, se così posso esprimermi, neppure l'ombra di una nuvoletta nel cielo, che era sempre incandescente di giorno, e magnificamente azzurro e stellato di notte. Che dire dei tramonti nel Turkestan? Era tutta una parte di cielo che mandava bagliori e riflessi gialli, che si consumavano lentamente: qualche cosa di veramente indescrivibile. Con il mio amico Lorenzoni si andava tutte le sere ad ammirare lo spettacolo.

Noi graduati, che formavamo lo stato maggiore della tettoia, c'eravamo anche costruito un rozzo tavolo davanti alla stessa per prendere i pasti. E là avevamo all'intorno una scena meravigliosa: in basso, dopo i campi di cotone, scorreva il Sir-Daria, e più lontano si elevavano monti altissimi con le vette coperte di neve, le propaggini occidentali dell'enorme massiccio del Tien-scian, nel cuore del mondo.

Un giorno venne a rompere la monotonia della vita nell'accampamento la visita di due eccelsi signori, i due grandi khani o emiri dei due khanati, vassalli della Russia, di Bokara e di Kiva; ci elargirono anche una somma di denaro, non ricordo bene quanto, cento o duecento rubli; ma poiché, dividendola fra tutti avremmo ricevuto pochi kopeki a testa, decidemmo di lasciarla ai medici per comprare medicine, di cui c'era penuria, e per il sostentamento degli ammalati.

Un buon prete polacco ottenne di venire su da noi da Taskent, la domenica, per dire la messa. Fu eretto un altare all'aperto, e là si ascoltava la funzione: polacchi e italiani improvvisarono anche un coro. Questo prete conosceva abbastanza bene l'italiano, perché nella sua gioventù era stato a Roma; aveva domandato di noi; con lui si parlava dell'Italia e di tante cose; ci diceva parole di conforto; sicchè di quel buon vecchio abbiamo conservato a lungo grata memoria.

I prigionieri polacchi che erano, come ho detto, nella nostra stessa baracca, ci facevano assistere tutti i giorni e quasi tutto il giorno a preghiere e canti liturgici; col libro di preghiere in mano si riunivano in gruppi e cantavano messe, vespri e giaculatorie. Qualcuno si metteva in ginocchio in mezzo a un prato, e stava lì due tre quattro ore a
fare genuflessioni, baciare la terra, alzare le braccia al cielo, picchiarsi il petto pregando. Bigottismo o vero sentimento religioso? Esagerazione in ogni caso.

Non lontano dalla nostra tettoia c'era una capanna di canne e di paglia. Questa era stata scelta dagli Ebrei come loro sinagoga; sicché, il sabato specialmente, si radunavano lì da tutto il campo, e, mentre uno faceva da rabbino con un asciugamano sulle spalle e in un angolo gridava come un ossesso, gli altri dentro e fuori con loro libri in mano e in testa un quadratino di cartone nero simile al cappelluccio di Fortunello, facevano un'enorme confusione... una vera sinagoga.

Dopo circa un mese e mezzo di questa vita, un giorno, mentre sdraiati all'ombra lasciavamo passare le ore del caldo opprimente, udiamo a un tratto gridare: «Italija Italija, vojnà»: era un ragazzetto che veniva nell'accampamento a vendere i giornali, e lanciava la grande notizia dell'entrata in guerra dell'Italia a fianco dell'Intesa.

A tanta distanza e in queste circostanze apprendemmo che l'Italia aveva rotto gl'indugi e dichiarato la guerra.

Di ciò che avveniva in Italia nel periodo della neutralità sapevamo ben poco; tanto più che gli austriaci facevano circolare ad arte fra di noi notizie false per ingannarci e trattenerci dalla diserzione. Sui Carpazi, pochi giorni prima che fossimo fatti prigionieri, circolava la voce che l'Austria aveva ceduto all'Italia il Trentino, e che in cambio l'Italia avrebbe mandato al fronte russo quindicimila bersaglieri, che noi aspettavamo di giorno in giorno.

Si può immaginare come accogliemmo quella notizia; comprendemmo subito che avevamo finito di essere austriaci, e per prima cosa strappammo dalla divisa mostrine stemmi e monogrammi, finché non potemmo buttar via anche quella cambiandola con altri vestiti fornitici dai Russi o che noi in qualche modo potemmo procurarci.

Pochi giorni dopo il Comando russo fa sapere agl'italiani che quelli che vogliono partire per l'Italia possono farlo; vien dato l'ordine di fare le liste e portarle al Comando.

Questa comunicazione fu accolta con giubilo da quelli di noi che già avevano deciso di aderire all'invito russo per andare ad arruolarsi nel regio esercito. Ma fu anche causa di dispute interminabili fra i favorevoli alla partenza, gl'incerti e i contrari; c'erano anche questi naturalmente; non tutti erano irredentisti; così è sempre accaduto in tutte le parti del mondo e sempre accadrà. Certo sarebbe stato bello che tutti gl'italiani, come un sol uomo, avessero datò il loro nome, ma le cose belle e perfette non sono di questo mondo. Rimasero questi, ma rimasero anche dei buoni italiani. Nessuno poteva sapere allora quanto la guerra sarebbe durata, né prevederne con certezza l'esito. Si trattava di uomini di quaranta e più anni, che le sofferenze della guerra avevano invecchiato innanzi tempo, sì che ne dimostravano sessanta. Dicevano: Andate voi che siete giovani; noi nessun aiuto possiamo recare all'Italia; abbiamo ancora in Austria la moglie e i figli, esposti a chi sa quali feroci rappresaglie, e i pochi beni al sequestro. Ho cercato di persuaderne qualcuno, ma penso che siano scusabili; il passo che stavamo per fare era gravissimo, e non tutti si sentivano di poterlo fare. E rappresaglie ci furono: famiglie che fino allora erano state risparmiate vennero internate; a tutte furono tolti i sussidi, e furono sottoposte a ogni sorta di vessazioni. Sebbene fossimo tanto lontano e usassimo prudenza, l'Austria in breve venne a sapere i nomi di tutti, dalle notizie dalla Russia, dalla nostra corrispondenza che fu tutta sequestrata, e in tanti altri modi, anche i più impensati.

[continua...]


Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera

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"Prigionia in Russia"
by Silvio Viezzoli

(Conferenza tenuta a Belluno nel 1928)

[continuazione]


Io avevo mandato una cartolina illustrata a persona amica a Firenze; in essa davo notizia del prossimo ritorno. Questa persona andò al consolato di Russia per domandare informazioni sul modo di farmi pervenire denaro o altro, e mostrò la cartolina che rappresentava il grandioso bellissimo monumento al generale Kaufman, conquistatore del Turkestan; questo monumento si trova nel mezzo dei giardini di Taskent, ed ha, oltre alla statua del generale, a lato del piedestallo una colossale figura di soldato russo in atto di suonare la tromba. Appena il signor console, o chi per lui, ebbe veduta la cartolina, cominciò a dire che conosceva Taskent, non so se per avervi dimorato a lungo o perché addirittura vi era nato, che avrebbe avuto assai caro il possesso di quella cartolina che gli ricordava la sua città e via discorrendo. Insomma tanto disse, che questa persona, volendo avere il suo aiuto e di nulla sospettando, finì con dirgli: «Ma se proprio ci tiene tanto ad avere questa cartolina, gliela regalo». L'altro si profuse in ringraziamenti. Pochi giorni dopo la cartolina era nelle mani della gendarmeria austriaca!

Prima però che partissimo dal campo di Troisk passò un altro mese e mezzo. Intanto in due o tre italiani avevamo chiesto e ottenuto di frequentare le lezioni di lingua russa, che nella scuola elementare del villaggio erano state istituite per i Cecoslovacchi, non so se per iniziativa di questi o delle autorità russe. Era la scuola di Troisk un edificio basso, ma ampio lindo e bianco, con belle e pulitissime aule, ricco di materiale didattico, di carte murali, di quadri, come non mi sarei aspettato in quel paese. Faceva un singolare contrasto con le sudicie case dei Sarti, davanti alle quali su ampi tavolati coperti di tappeti e difesi con tende dal sole, questi se ne stavano pigramente sdraiati tutto il santo giorno a dormire, bere il tè e fumare.

Dietro alla scuola c'era un grazioso giardinetto: e in questo il maestro, un ometto smilzo sulla cinquantina con la « rubaska» e gli stivaloni alla russa, ci teneva le lezioni. C'erano anche delle signorine maestre che venivano nei banchi ad aiutarci a decifrare i geroglifici dell'alfabeto cirilliano.

Un giorno venne un signore che tenne ai Cechi un bel discorso patriottico. Anch'io compresi così all'ingrosso che esaltava lo sforzo della Russia per la liberazione degli Slavi dall'Austria, e inneggiava all'unione e alla concordia fra tutte le stirpi slave.

Intanto la vita di quelli che dovevano partire per l'Italia andava facendosi difficile nell'accampamento di Troisk. Sorgevano frequenti dispute con gli austriaci e specialmente coi tedeschi, che erano pure numerosi e minacciavano di dare l'assalto alla baracca degli italiani. Dovemmo rivolgerci al comandante del campo per avere dei soldati a protezione.
Finalmente verso la metà di luglio si partì; i Tedeschi vennero a vederci partire e a lanciarci le ultime ingiurie. Noi si credeva di andare diretti in Italia. Invece, ritornati a Taskent, fummo condotti in una grande caserma, nella quale restammo fino all'ottobre.

Qui intanto avveniva il concentramento di tutti gli italiani del Turkestan. Un giorno ne arrivava una colonna di un centinaio da Samarcanda, un altro giorno duecento da Askabad, dopo qualche settimana cinquanta da Merv; e poi ne giunsero da Hogent, da Kokand, da Aulie-Alta e da altri luoghi.

L'arrivo di ogni gruppo, con alla testa un bel tricolore, era un grande avvenimento, anzi una festa: canti, grida di «Viva l'Italia».

Uno trovava fra i nuovi venuti il fratello che aveva lasciato a casa quando era partito per la guerra, e del quale non aveva nessuna notizia, e voleva sapere come stava la famiglia; un altro trovava il parente o l'amico. Abbracci, saluti, grida, canti. «Ma si va proprio?» si sentiva chiedere l'uno all'altro. «Mi par impossibile di essere ancora vivo; quell'assalto alla baionetta!» E poi tutti a ricordare i pericoli corsi, il freddo, la fame e il resto. Ognuno raccontava ciò che aveva visto nei vari luoghi. I nomi delle città del Turkestan ci erano divenuti familiari.

Finché durò il concentramento sopportammo con pazienza l'indugio. Poi cominciarono le impazienze e i malumori. Spedimmo telegrammi al marchese Carlotti, allora nostro ambasciatore a Pietrogrado; ci rispondeva, con fin troppa longanimità e bontà, che avessimo pazienza e confidassimo nella sua opera, che non eravamo dimenticati, che c'erano degli impedimenti, eliminati i quali, la partenza si sarebbe effettuata senz'altro, e tante altre belle e buone parole.

Intanto passavano i giorni le settimane i mesi.

Ma un avvenimento veramente grave si verificò, il quale fu purtroppo la causa di tanti guai per noi, e che ci chiuse per allora la via del ritorno: la dichiarazione di guerra, che è di quei giorni, della Bulgaria alle potenze dell'Intesa.

Il nostro rimpatrio era stato progettato per la via dei Balcani; chiusa questa, bisognò pensare ad altro; e così dovemmo restare ancora in Russia più di un anno.

Come ho detto, il grandissimo cortile di una caserma fu la nostra stanza per tre mesi. Sempre in esso, giorno e notte, giacché per l'enorme caldo, si dormiva all'aperto sotto le stelle, distesi su delle stuoie che noi stessi c'eravamo fabbricate. Non perdevamo tempo a spogliarci, perché tutto il nostro vestito consisteva in un paio di mutandine.

Avevamo meno libertà di movimento che nell'accampamento di Troisk ma quasi non ce ne accorgevamo. Infatti di giorno era tale il calore e tanta la polvere per la città, che veniva poca voglia di vestirsi e uscire. La sera non ci era permesso.

E la vita nella città cominciava appena alle otto e mezzo nove di sera. Durante il pomeriggio la città è come morta, affocata sotto il sole; la sera tardi le strade s'illuminano, la gente esce dalle case, si aprono i teatri e i cinematografi; la città allora coi suoi ampi viali e coi suoi giardini diventa bellissima, tutta una fantasmagoria di luci e di gente in movimento che si diverte. Come invidiavamo allora gli ufficiali che potevano star fuori fino alle undici! Dopo la mezzanotte i cittadini si ritiravano a dormire nei letti che stanno all'aperto nei giardini che circondano le abitazioni.

La mattina venivamo svegliati all'alba da un chiasso immenso e caratteristico, un concerto strano di voci d'animali di tutte le specie che saliva dal mercato. Talvolta si distingueva anche la voce del muezzin che dall'alto del minareto invitava i fedeli a rivolgere il pensiero ad Allah.

Gran confusione e movimento di gente la mattina al mercato; russi e indigeni che trafficano ogni sorta di cianfrusaglie; e poi il mercato del bestiame, e quello delle frutta: cocomeri e mele e pere e altri frutti di straordinaria grandezza, uve dagli acini grossi per tre o quattro volte la media delle nostre uve.

Di rado qualche povero tartaro, venditore ambulante di frutta, s'avvicinava alla caserma; era successo che i soldati russi chiamassero i nostri, i quali, fingendo di comprare, derubavano il malcapitato; questo voleva inseguirli, ma era respinto colla baionetta dalla sentinella.

La sera, all'ora del tramonto, mi piaceva avvicinarmi al corpo di guardia, davanti al quale si schieravano i soldati in doppia fila, e, dopo la lettura dell'ordine del giorno, cantavano l'inno imperiale, che diceva: «Dio, proteggi lo zar - O tu forte e potente zar della vera fede, regna per la nostra gloria, regna a terrore dei nemici - Dio, salva lo zar!». Poi con una melodia molle, patetica, con passaggi che direi nostalgici, cantavano il «Padre nostro».

Anche quando marciano, per otto o per dieci i soldati russi cantano; di solito tutti in coro, altre volte alternatamente, alcuni versi uno solo, poi tutti insieme.

Un giorno, in cinque o sei, ottenemmo il permesso di andare; accompagnati da un soldato a visitare la città tartara. Questa si trova a circa venticinque minuti dalla città russa. Per la strada udimmo delle voci da un'altana; era un maestro tartaro che faceva scuola, e gli alunni ripetevano ad alta voce la lezione.

La città tartara è quanto di più sudicio e sconnesso si possa immaginare. Strade quasi affossate e coperte da tende e vetrate, in una semi-oscurità; ai lati botteghe piccole e strette, alquanto alte dal suolo, tutte tappezzate; dentro, seduto per terra il padrone con un gran libro davanti, il Corano. Più in là fucine primitive di fabbro, basse, come buche sotto il livello della strada, nere e affumicate: un'industria dei tempi di Tubalkaim.

Le abitazioni basse non hanno finestre sulla strada, ma solo una piccola porta. Donne se ne vedevano poche, e queste completamente velate. Una sola volta e di sfuggita vedemmo il viso di una giovane indigena mentre frettolosa rientrava in casa da un orto. Entrammo anche in una moschea.

Intanto venimmo a sapere che in una città della Russia europea, e precisamente a Kirsanoff nel governatorato di Tamboff, si stava facendo il concentramento di tutti gli irredenti che avevano chiesto di essere trasportati in Italia, che già vi erano quasi tutti quelli venuti dalla Siberia e dalle altre parti della Russia, che anche noi si sarebbe dovuto presto partire a quella volta.

E infatti partimmo il 4 di ottobre. Quando arrivammo al ponte sull'Ural, confine tra Asia ed Europa, tutti si misero a urlare come indemoniati, a fare un baccano assordante: era una manifestazione di giubilo! Passato il ponte, i primi europei che incontrammo furono un gran branco di maiali; e allora molti, presi dall'entusiasmo, si diedero a gridare: viva i maiali! Era un sincero omaggio a quelle buone e utili bestie che si chiamano porci non per colpa loro.

A Kirsanoff molti prigionieri italiani e alcuni ufficiali russi erano alla stazione ad attenderci. Ma con nostro grande disappunto ci fu annunziato che là non c'era più posto per noi, essendo già occupati tutti i locali disponibili.

Dovevamo andare più a nord in una cittadina chiamata Orloff, vicino a Viatka (oggi Kiroff), situata sul fiume dello stesso nome, affluente della Kama. Proseguimmo quindi per Tamboff, dove la stazione era ingombra di vagoni carichi di profughi delle terre invase dai Tedeschi. Faceva gran pena quella povera gente che aveva dovuto abbandonare la casa e il paese natio e viveva lì dentro carri ferroviari tra grandi stenti e miseria. In quel giorno stesso un bambino che giocava in mezzo a quella confusione era perito miseramente sotto un treno.

Di là piegammo verso nord. Passammo per la seconda volta da Mosca, e quindi a Jaroslavl, dove mangiammo in una specie di gran salone-teatro; giungemmo poi a Vologda, la più graziosa e simpatica città russa ch'io abbia veduto. Da Vologda, che si trova circa all'altezza di Pietrogrado (oggi Leningrado), piegammo verso est. Eravamo giunti nella regione dei boschi. Da qui fino alla piccola stazione di Sozino non incontrammo più nessuna città né grande né piccola. Si correva ore e ore in mezzo al bosco, che formava come due pareti lungo la linea, e pareva di correre in una specie di galleria. A grandi distanze una radura e una piccola stazione, e cataste enormi di legna, che talvolta noi stessi caricavamo sul tender, giacché da quelle parti i treni vanno avanti anche a legna.

Questo viaggio, al quale ho accennato con poche parole, durò la bellezza di diciannove giorni. Giungemmo alla piccola cittadina di Orici, prima di Viatka, il 23 ottobre.

Scesi dal treno dovemmo fare ancora quasi quattro ore di strada a piedi per giungere a Orloff. Era una bella e ampia strada, e una bella giornata; sicché la via fu fatta allegramente cantando e scherzando sulla bella Italia che avevamo raggiunto! Sebbene la stagione fosse ormai avanzata, non era ancora caduta la neve. Attraversammo dei villaggi cinti tutto all'intorno da alti steccati di legno, necessaria difesa contro i lupi nella stagione invernale.

Ed eccoci finalmente alla riva della Viatka. Qui bisognò sostare, perché eravamo sulla riva sinistra del fiume, la città di Orloff è invece sulla destra. A gruppi passammo al di là su enormi zatteroni spinti dai Russi con lunghe grosse pertiche.

Quando fummo tutti sull'altra riva prendemmo congedo dal capo del nostro trasporto, un tenente colonnello buonissimo diavolo, il quale per tutta la strada non aveva fatto altro che masticare «sjemcki», ossia semi di girasole, in uso fra i Russi come una volta da noi i semi di zucca. Gridammo «viva la Russia» ancora con un certo entusiasmo. Attraversammo quindi la via principale della città, e giungemmo all'altra estremità di essa. Un po' fuori dalle ultime case sorgeva l'edificio che ci doveva ospitare nei mesi invernali, la più triste e orrida dimora che avemmo in Russia, e dove passammo anche i più tristi mesi. Era una caserma con un grande stanzone a terreno e uno eguale al piano superiore; inoltre due o tre altre stanze più piccole. Nel mezzo e all'intorno c'erano dei tavolati sui quali dormivamo uno a ridosso dell'altro, stipati come le sardelle, vestiti, perché non c'era altro per coprirsi. Io e il mio amico fiumano Marassi giacevamo vicini, e avevamo anche la disgrazia di trovarci presso a un ampio portone sempre spalancato dal quale entrava l'aria rigida e la neve.

La neve cominciò presto a cadere abbondante; il freddo si fece intensissimo; il fiume che avevamo attraversato sulle zattere non si distingueva più; vi passavano sopra i carri e le slitte. Tutto all'intorno era bianco di neve, tutto era ghiaccio. Le poche «isbé» che i primi giorni vedevamo sparse nella campagna erano scomparse; solo la sera talvolta le indovinavamo da un po' di luce che filtrava da qualche finestra. E sopra a questo triste paesaggio un cielo plumbeo che ne accresceva la desolazione. Ed era un bene che il cielo fosse coperto perché allora ci si contentava di una ventina di gradi sotto lo zero; negli altri giorni il termometro scendeva a 30, 35, 40 e più. Del resto anche quando c'era un po' di sole a nessuno veniva voglia di andare fuori; e il giorno durava poi così poco! Tra le nove e mezzo e le dieci faceva giorno, e alle tre tre e mezzo era notte di nuovo; e anche di quel breve giorno assai poco si vedeva fuori attraverso le piccole basse finestre incrostate di due dita di ghiaccio. In tale miseria si viveva, protetti dal freddo più che altro dall'aria densa dei sudici stanzoni e dal puzzo che esalavano tanti corpi umani pigiati insieme, quasi sempre al buio. La sera ci si disputava un pezzetto di candela per fare un po' di luce.

La mattina ci veniva dato un pezzo di pane nero, la «kleba», per la giornata; questo dava lavoro ai denti fino a sera; la pagnotta arrivava in caserma ghiacciata e dura, che c'è voluta qualche volta un'ascia per poterla spaccare e farne le parti.

Ora, poiché intendo fare, sia pur a rapidi cenni, un racconto verace della nostra prigionia, non posso tacere di quelle bestioline che avevano tanta parte nella vita dei prigionieri di guerra, i pidocchi. Impossibile non prenderli al fronte e nelle tradotte in cui avevano viaggiato come bestie ogni sorta d'individui; ce n'era di tutte le dimensioni, anche rispettabili, e si sentivano navigare in tutte le direzioni.

Alla caccia che bisognava dar loro ogni giorno, dall'atto di tenere la camicia o altro pezzo di vestiario con le due mani e ficcarvi sopra gli occhi, avevamo dato eufemisticamente il nome di «lettura del giornale». Se ne contavano oggi cento domani centocinquanta poi duecento poi centottanta e così via. Un periodo di magra fu quello di Troisk e di Taskent specialmente; lì era caldo, si stava, si può dire, senza niente indosso, si poteva lavare alla meglio la biancheria; e così c'eravamo liberati quasi del tutto; eravamo scesi persino alla media di quattro o cinque al giorno, cose da nulla. Ma il secondo viaggio e la vita di Orloff li aveva fatti salire di nuovo a cifre impressionanti. Metà della giornata era dedicata a lavorare di unghie. E non soltanto per il loro supplizio, ma anche per grattarci, specialmente alle gambe, a causa del prurito che provocavano. Ma come «dalla fonte del duol nasce il contento» e quel grattamento furioso era una voluttà, chi poteva resistere? E allora spuntavano sulla pelle dei punti rossi che presto si univano a formare una piaga; e questo fu un tormento serio per tutto il resto della prigionia. Bisognava andare all'ospedale a farsi medicare; e lì le infermiere senza tanti complimenti ci facevano vedere le stelle quando raschiavano le croste e spennellavano con iodio le carni vive. Taluni avevano addirittura dei buchi e venivano curati dai medici. E pongo fine a questa necessaria divagazione!

La sera si passava il tempo a studiare il russo. Il nostro compagno Mario Lorenzoni da Cles aveva ricevuto dall'Italia, e precisamente da suo fratello professore all'Università di Macerata, una grammatica russa; essa serviva a una decina di noi; ce la disputavamo per copiarvi le regole e le parole sopra quaderni o pezzi di carta qualunque: e lì tutti intorno a un pezzettino di candela!

Era successo che tutti stavano meglio prima di essersi mossi per la partenza per l'Italia. Sorse tra i soldati un malcontento che aumentava di giorno in giorno, e noi non sapevamo più come calmarli ed esortarli a sperare e aver pazienza. Si scriveva per notizie a Kirsanoff; ma della partenza per l'Italia nessuno faceva parola.

Finalmente in dicembre giunse a Orloff il regio console a Mosca, Adelchi Gazzurelli, che era stato incaricato dall'ambasciatore di fare un giro per i concentramenti degli italiani. Dopo Kirsanoff venne da noi. Radunatici sulla neve fuori della caserma, da una sedia posta nel mezzo ci tenne un patriottico discorsetto d'occasione; ci salutò in nome del Re e della Patria; disse dei gravi motivi che impedivano una partenza immediata; ma sperava che intanto avremmo potuto lasciare Orloff per Kirsanoff. Vide le nostre miserie; parlò in nostro favore presso il Comando russo; ottenne qualche miglioramento nella cucina, e ottenne pure che alcuni di noi, cosiddetti volontari d'un anno, potessero alloggiare fuori da quel casermone tetro e puzzolente in un'altra casa dove già stavano alcuni aspiranti ufficiali; gli ufficiali erano rimasti a Kirsanoff. Andammo a salutarlo all'albergo. Poi partì.

E noi si restò press'a poco come prima. Anche la concessione di star fuori ci fu tolta dopo un paio di giorni. Una sera vennero i «karauli», dovemmo raccogliere le scarabattole e far ritorno alla caserma, fra muri di neve più alti delle nostre teste, che lasciavano appena uno stretto passaggio. Per il freddo e per la stizza ci veniva da piangere.

Questo provvedimento però era stato preso perché uno di noi era fuggito: un triestino mattacchione, certo Polli, che aveva messo insieme qualche rublo vendendoci una certa mistura che voleva essere caffè nero, che egli confezionava con una macchinetta primitiva e rugginosa che Dio sa come si era procurata. Si andava da lui al pianoterra, e da un comune bicchiere di latta si beveva il caffè per un copeco. Quest'angolo, tanto per essere in carattere, lo avevamo battezzato il «Caffè Pidocchio». Venimmo in seguito a sapere che si trovava a Pietrogrado e che si guadagnava la vita facendo il buffone nei caffè-concerto.

Dopo di lui altri tre o quattro seguirono il suo esempio e scapparono a Pietrogrado, dove furono trattenuti presso l'ambasciata.

Il Comando aumentò allora la vigilanza, e fu ordinata, non so dire se una seccatura o un divertimento per noi, la «povjerka», ossia l'appello che doveva esser fatto tutte le sere. A una certa ora si sentiva gridare: «Na povjerku, Marguta Marguta! » Era il soldato russo che chiamava il mio amico Morgutti (un friulano, professore di matematica a Gorizia), il quale, conoscendo il russo meglio di tutti, era il nostro «starsci», l'intermediario quindi fra noi e i Russi; egli doveva aiutarli nell'operazione. Noi del piano superiore ci facevano scendere abbasso. E qui tutti quei disgraziati
al colmo d'ogni miseria e in quel luogo che pareva fuori del mondo, pur battendo i denti dal freddo e pestando i piedi per terra per scaldarsi, ammassati nel buio o quasi, trovavano ancora fiato per intonare i canti della Patria, e talvolta il «Va pensiero sull'ali dorate»» si levava fra quei tristi muri, e pareva proprio il sospiro di quella gente verso la patria e verso le famiglie lontane e chissà in quali angustie.

Poi si saliva su per la scala, a capo della quale stavano uno o due soldati russi occupati a contarci; ma credo che il conto non tornasse mai giusto.

Il municipio di Orloff pensò di mettere insieme una banda musicale con quelli di noi che sapevano suonare, e comperò loro appositamente gli strumenti. Questi andavano a suonare nel teatro del luogo. Allora venne in mente ad altri di formare anche un coro. E anche questi andavano nel teatro a cantare facili cori d'opere gli inni patriottici, e specialmente canzonette popolari; cantarono tutte le antiche e recenti e anche le più banali e volgari canzonette triestine; e i russi, che non capivano niente delle parole, e ai quali, come pareva, piacevano quelle arie nuove per loro, si spellavano le mani dall'applaudire.

Fu inoltre chi pensò di organizzare una specie di teatro per nostro uso e consumo nella caserma stessa; e così nello stanzone a terreno, accomodate alla meglio quattro assi, dopo pochi giorni tutto era pronto per l'inaugurazione.

Chi sapeva fare qualche cosa doveva prestarsi; banda, cori, recita di una farsa, giochi di prestigio, declamazione: tutto era buono. Io recitai alcuni sonetti romaneschi di Trilussa, del Pascarella e del Belli, che ricordavo a memoria.

Ci onorarono della loro presenza il comandante russo e qualche altro ufficiale, che sedevano in prima fila. Si cominciò con l'inno imperiale russo e la marcia reale, ascoltati da tutti in piedi.

Avevamo anche una specie di università popolare. Morgutti traduceva e leggeva, specialmente ai suoi compatrioti friulani, brani dalle opere dei principali scrittori russi.

Ricevemmo in questo tempo da Mosca una copia del Libro Verde e il discorso famoso di Salandra in Campidoglio, che fu letto solennemente ai soldati in mezzo a un subisso di grida e di applausi.

Così passavano i giorni.

Ed ecco giungere l'ordine di partire da Orloff per Kirsanoff.

II giorno della partenza, 21 gennaio 1916, fu forse il più terribile di tutta la prigionia.

Lasciata la caserma e attraversata la cittadina, passammo senza accorgercene al di là del fiume; senza accorgercene, perché del fiume che avevamo attraversato la prima volta sulle zattere non c'era traccia, essendo completamente ghiacciato e coperto di neve, eguale a tutta la superficie circostante. I carri avevano formato profondi solchi nella neve; si camminava a stento con un piede dentro al solco e l'altro fuori, e sotto una tormenta di nevischio con un vento gelido che tagliava la faccia. Subito la colonna si sciolse in gruppi, e anche i gruppi si dispersero in singoli camminatori, che presto, a causa della vita sedentaria nella caserma e specialmente delle piaghe alle gambe, impossibilitati a proseguir, si lasciavano cadere ai lati della strada con pericolo di rimanere assiderati. Per chi poi con gran sforzo proseguiva c'era il pericolo di perdere la strada e smarrirsi affatto col sopraggiungere della notte.

Io potei con fatica trascinarmi fino alla metà circa del cammino che dovevamo percorrere per giungere alla stazione. Ma a un tratto mi mancarono del tutto le forze e mi lasciai andare sopra un cumulo di neve. E' curioso che questo stato d'impotenza non mi spaventò per niente; anzi provavo uno strano senso di rilassamento e quasi di benessere. Restavo là intontito e senza pensiero. Per fortuna fui raggiunto da due amici, anch'essi ritardatari, i quali mi rialzarono e col loro aiuto feci un altro breve tratto di strada. Ma non so se e quando saremmo arrivati alla stazione, se non fossero sopraggiunte delle slitte (quelle caratteristiche slitte basse di legno dei contadini russi), guidate da soldati e da contadini, che portavano gli ammalati, e dovevano anche raccogliere quelli che restavano indietro.

In una di queste, già piena di altri individui accatastati l'uno sull'altro, mi fu fatto un po' di posto; mi trovai buttato con le gambe in su, e la testa in giù che sfiorava la neve della strada. Naturalmente sentii dapprincipio un po' di sollievo; ma poi cominciai a stare peggio di prima. Camminando il movimento non faceva sentire tanto il freddo, ma nell'immobilità sulla slitta cominciò a invadermi le membra in modo terribile; eppure bisognava sopportarlo. Che fare? piangere? imprecare? ridere come un pazzo? Mi sentivo diventare un pezzo di ghiaccio. Quel giorno pensavo di non arrivare vivo alla meta.

Ma per fortuna questa non era ancora molto lontana, e, come Dio volle, vi giungemmo che erano calate le tenebre.

Con mia meraviglia potei alzarmi dalla slitta ed entrare nella stazione. Questa era piena di «mugiki» e di donne che forse aspettavano di partire per Viatka. Qui al caldo un po' alla volta riprendemmo le forze.
Intanto si formava la nostra tradotta.

Nell'oscurità ci demmo a saccheggiare dei mucchi di legna, e a portarla ciascuno nel proprio vagone, dove accendemmo le stufe; e quando nella notte il treno si mise in moto avevamo già dimenticato gli stenti e le sofferenze, e ci mettemmo a ridere e a cantare a squarciagola.

Durante il viaggio le solite scene di quelli che, alle fermate, scappavano di qua e di là nelle «izbé» a domandare pane o altro, e nelle stazioni le lunghe file per il «kipjatok», ossia per prendere all'apposito rubinetto l'acqua calda per il tè.

I Russi quando viaggiano portano sempre con sé il «ciajnik» (teiera); l'acqua calda, il «kipjatok», si trova nelle stazioni; basta andarla a prendere o farsela portare al vagone, mettere nel «ciajnik» il pizzico di «ciaj», e la bevanda è pronta.

In Russia si fa grande uso del tè, perché, essendo il paese quasi tutto piano, l'acqua potabile non è buona, e in qualche regione addirittura mista a sabbia; perciò nelle stazioni viene filtrata da speciali apparecchi. Non c'è casa dove non campeggi nel mezzo della tavola, come primo e indispensabile oggetto dell'economia domestica, un bel samovar.

Tutti correvano con la gamella al «kipjatok», ma qualche volta inutilmente data la ressa; il treno si metteva in moto, e allora erano corse, cadute, un arrampicarsi sulle vetture, e grida dei soldati di scorta, «skoro, skarei», presto, più presto!

Così, rifacendo all'indietro la via già percorsa, per Vologda Jaroslavl Mosca Rjazan Kozloff e Tamboff, dopo otto giorni, il 29 gennaio, giungevamo a Kirsanoff.

Questa è una piccola città di circa dodicimila abitanti, molti dei quali ebrei. Giace non lontano dalla riva sinistra del fiume Vorona, affluente del Choper, affluente a sua volta del Don. Possiede una bella cattedrale con campanile e altre cupole a cipolla e una chiesa votiva. Le case sono quasi tutte di legno, tipo villini.

L'attraversa un'ampia strada alberata con marciapiedi, la «Dvorjanskaja».

La nostra vita a Kirsanoff si può dividere all'ingrosso in tre periodi: I. febbraio marzo aprile, ossia fino alla fine dell'inverno; II. maggio giugno luglio; III. fino alla partenza definitiva in settembre avanzato.

La vita nel primo di questi periodi non si differenzia gran che da quella di Orloff.

Fuori neve che copriva tutto; noi sempre rinchiusi ammucchiati nelle nostre stamberghe su tavolati a uno due o tre ripiani, simili a enormi scaffali; in mezzo a un tanfo orribile si conduceva una vita delle più basse.

Si usciva solamente incolonnati e guidati da un soldato, che si sgolava a gridare «po citiri» (per quattro) e «na levo» o «na pravo» (a sinistra, a destra) se incontravamo qualche ufficiale, per andare, armati di gavetta e di cucchiaio, che si teneva infilato nelle scarpe o negli stivaloni, nel grande cortile del Comando, dove erano le cucine per tutti.

Il rancio consisteva di solito in «kapusta i riba» («kapusta i voda» dicevano scherzando i soldati russi), specie di cavoli cotti nell'acqua e pesci di fiume, di cui è ricca la Russia, o altre volte minestra di lenticchie, e la immancabile «kascia», specie di polenta di grano di miglio condita con olio.

Si mangiava in pieno inverno sempre all'aperto e in piedi sotto la neve o sotto la pioggia, e in compagnia di numerosi maiali che giravano liberi per il cortile, ci venivano tra i piedi e talvolta facevano per salire sulle rozze tavole dove il capo-decina poneva il recipiente colla broda per dieci. Queste bestie appartenevano al signor «vojski nacialnik», il comandante militare di Kirsanoff!

Qui ci veniva distribuita la «kleba» per la giornata; poi per la stessa strada ciascuna compagnia ritornava a chiudersi nel proprio alloggiamento.

Pure in queste condizioni mandammo a effetto l'idea già avanzata da uno di noi a Orloff, quella cioè di fondare un. giornaletto.

Il merito di aver pensato a ciò spetta a Clemente Marassi di Fiume, che già aveva diretto nella sua città un giornale intitolato «La bilancia», e che poi durante l'occupazione dannunziana aveva avuto un'alta carica sindacale della Reggenza.

A Orloff, per l'improvvisa partenza, non si fece nulla, ma l'idea fu ripresa a Kirsanoff.

Nell'ora dei pasti, in cui ci si trovava con quelli delle altre compagnie, furono presi tutti gli accordi. Si trovarono sedici azionisti che sottoscrissero per un rublo ciascuno, e così si provvide alla spesa per il poligrafo la carta e l'inchiostro. La minuscola tipografia aveva sede alle «Carceri», dove erano acquartierati la maggior parte dei Trentini.

I redattori del giornale erano in maggioranza trentini; il direttore un fiumano. Però in un articolo della «Nuova antologia», in cui si trattava dei molti giornaletti sorti fra le truppe durante la guerra, si accennava anche al nostro attribuendone tutto il merito ai trentini; degli Adriatici nemmeno una parola, senza rispetto alla verità.


[continua...]


Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera

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"Prigionia in Russia"
by Silvio Viezzoli

(Conferenza tenuta a Belluno nel 1928)

[continuazione]


S'intitolava adunque il giornale «La nostra fede», e aveva per motto il dantesco «Non sbigottir, ch'io vincerò la prova». Costava tre copechi e usciva di solito una volta la settimana; il primo numero portava la data del 26 febbraio 1916.

Aveva articoli politici e letterari, quasi tutti d'intonazione patriottica. Pubblicava anche un Bollettino quasi giornaliero, con le notizie della vita di Kirsanoff, e le notizie della guerra, i bollettini delle varie fronti, tradotti dai giornali russi, specialmente dal «Ruskoje slovo».

Questi bollettini venivano letti ogni sera ai soldati nelle varie caserme. Dopo si leggevano anche delle poesiole, chiamiamole così, insomma degli scherzi rimati, che scrivevamo con l'unico scopo di far ridere e far dimenticare per un quarto d'ora la noia e i disagi della prigionia.

Prendevano di mira i difetti dell'uno o dell'altro dei compagni più in vista, o trattavano argomenti che si riferivano al nostro stato in generale. Anzi da alcuni si cominciò a scrivere un giornaletto umoristico, il quale, parodiando «La nostra fede», s'intitolava «La nostra fame», e aveva per motto «Non sbigottir, che corvi ne mangeremo ancora».

Inoltre all'amico scultore Ermete Bonapace da Mezzolombardo venne in mente la bizzarra idea di far giungere fra di noi Dante guidato da Virgilio in una parodia in terzine, che fu poi continuata da me. Così Dante col suo Maestro si aggira per Kirsanoff a visitare i luoghi dove erano acquartierati gli italiani, e parla con qualcuno di loro. Gli capitano varie buffe avventure; s'informa e discorre di ciò che riguarda la loro vita, dei loro odii, amori e interessi, uscendo in esclamazioni e in rampogne; si fa raccontare l'avventura di quelli che, travestiti da Kírghisi, volevano fuggire dal Turchestan nella Persia, ma furono acciuffati vicino al confine; entra in una «ciainaia» (dove si beve il tè, «ciai») per scaldarsi fra quei «musicchi» che in principio gli metton paura; udendo Virgilio pronunciare delle parole russe gli domanda dove mai abbia imparato quella lingua e Virgilio gli risponde di aver preso lezioni dal poeta Puskin nel Limbo, per ammazzar la noia; si trova anche al Comando nell'ora del pasto dei prigionieri, e poiché egli dice di aver letto nel «Corriere della Sera» che i prigionieri italiani in Russia erano trattati bene almeno per ciò che riguarda il vitto, ecco che questi scoppiano a ridere e gli offrono del loro cibo; Dante mangia, ma poco dopo è costretto a rigettare. Tralascio di citare altri episodi.

In questo tempo vennero a visitarci alcuni giornalisti: Renzo Larco del «Corriere della Sera», il quale aveva già scritto sul nostro conto cose assai inesatte; due volte venne Armando Zanetti del «Giornale d'Italia»; una o due volte, non ricordo con precisione, Virginio Gayda, allora corrispondente della «Stampa». Questi giornalisti trovandosi in Russia era naturale che si interessassero e scrivessero di noi; venivano di motuproprio, o talvolta per incarico dell'ambasciatore o del console di Mosca. Scrisse articoli eccellenti lo Zanetti, ma meglio di tutti parlò di noi e della nostra questione in varii articoli il Gayda. Era allora in Russia anche Luciano Magrini, ma non fu mai da noi; anche egli scrisse degli italiani in Russia, ma fu in relazione specialmente con quelli che erano in Siberia. Dobbiamo in gran parte all'opera di questi giornalisti, specialmente dello Zanetti, che trattò direttamente con le autorità russe, poiché parlava il russo perfettamente, se potemmo ottenere una maggior libertà, quando col sopraggiungere della bella stagione anche la natura si liberava dal gelo invernale.

E' meraviglioso in Russia il principio della primavera. Fino alla metà di aprile la neve copre ogni cosa, scricchiola sotto ai piedi nelle strade, rende la campagna uniforme; ed ecco incomincia a sciogliersi, in una settimana è tutta sparita, ai margini delle strade spunta il verde dell'erba; quelli che nella campagna parevano monticelli di neve si rivelano capanne e villaggi; ecco le strade, ecco i ruscelli, ecco i fiumi, ecco i campi tutti verdi; per una settimana ancora acqua scorrente e fango dappertutto; poi finalmente ha inizio la bella stagione.

Coincide questo inizio con la Pasqua, festa cara al cuore dei Russi, che la celebrano in maniera solenne. Già alla mezzanotte della vigilia cittadini e contadini si raccolgono alla cattedrale, dove si celebra una solenne funzione; canti di popi dalla sonora voce baritonale anzi di basso profondo,
e cori di giovinette; la chiesa tutta ori in uno sfolgorio di luci, piena di devoti prostrati a terra. Quindi all'aperto spari di gioia e fuochi d'artificio, che mandano bagliori nella chiara notte primaverile. All'uscita dalla chiesa cominciano i baci e gli abbracci, poiché è uso comune nel giorno di Pasqua di abbracciarsi pronunciando le parole di rito: «Christus voskresit» (Cristo è risorto - Si, veramente Cristo è risorto).

Cominciò un periodo di maggiore, potrei dire quasi completa libertà. Ormai anche le estreme sembianze austriache, come diceva Bonapace, erano in tutti estinte, giacché o erano vestiti con divise e «rubaske» russe, o in un modo o in un altro s'erano procurati abiti borghesie si girava tutto il giorno per la cittadina. Ci si dava convegno nella più grande ed elegante «ciainaia» del luogo, o nella «restauracija i kofienaja» (ristorante e caffè), dove si passavano allegramente le ore, serviti dalle varie Olghe e Vjere. - «Skolko ciai vam? » - «Ciai dvoim.» - «A sahar i lozka jest?» - «Jest». (Quanto tè volete? - Tè per due. - Avete zucchero e cucchiaio? - Si.) Giacché noi prigionieri si facevano le cose alla buona, e si andava con zucchero e cucchiaio in tasca.

C'era un vecchio, una macchietta, un tipo tolstoiano, con una gran barba e capelli lunghi, che grattava orrendamente un violino; tuttavia lo facevamo suonare per il gusto di vederlo affannarsi sul suo strumento, e udirlo mormorare le sue cantilene, che non avevano invero niente di musicale. - «Ivan Ivanovic, igraitje, igraitje malo na skripkjè». (Suonate, Giovanni di Giovanni, suonateci un po' il vostro violino.) E il povero vecchio, per pochi copechi, iniziava subito il suo concerto.

Qualcuno aveva fatto relazione con delle famiglie; tutti i giovani avevano stretto rapporti d'amicizia o d'affetto con le «barisgne» (signorine), le Zine le Sure le Julije le Nadine le Klavdije; e fiorivano gli idilli. Gli italiani erano trovati «harosij jeljegantni intellighentni» (cortesi eleganti intelligenti). E invero tali dovevano parere gl'italiani alle donne russe, avvezze ai pochi riguardi, sia detto in generale, che per esse hanno i loro uomini; i russi non sono usi a fare complimenti con le donne; e nei ranghi inferiori della popolazione se ne ricordano per farle lavorare e magari per picchiarle, diventando espansivi solo quando sono pieni di vodka.

Ma le ragazze della borghesia studiano tutte; si può dire che in Russia ci sono più scuole femminili che maschili. Può mancare in qualche cittadina la scuola media per i maschi, ma non manca mai la «zenska gymnazija» (ginnasio femminile), dove studiano il francese e il tedesco, non so con quale profitto; però ne escono con quello spirito di indipendenza, quel brio e quella spregiudicatezza, per cui fu detto che la donna russa è donna due volte.

La sera quindi grande passeggio sul marciapiede della via principale di Kirsanoff, la «Dvorjanskaja ulica» (via dei signori), davanti alle villette di legno coi balconi e i bassi poggioli infiorati; e grandi sberrettate e saluti - buona sera, buona sera -. Anche le russe salutavano in italiano; se fossimo rimasti là a lungo non noi diventavamo russi, ma Kirsanoff italiana! I ragazzetti s'erano fatti grandi amici dei nostri soldati ed erano sempre intorno a loro. Se questi avevano l'incarico dal Comando di trasportare della roba venivano aiutati dai loro piccoli amici, che salivano con loro sui carri e si facevano insegnare i canti italiani. Conoscevano gl'inni di Mameli e di Garibaldi e varii altri patriottici e irredentistici, e li cantavano coi nostri soldati. Ma, come rovescio della medaglia, avevano anche imparato buon numero di bestemmie e tante altre parole tutt'altro che castigate.

Si giunse così al 24 maggio, primo anniversario dell'entrata in guerra dell'Italia. La data doveva essere e fu solennemente celebrata. Il giornale pubblicò un numero speciale, con articoli che erano inni di fede. La mattina tutti sfilarono per quattro, tricolore in testa, cantando e inneggiando, per le vie di Kirsanoff. La sera grande trattenimento nel teatro della città, con la partecipazione delle autorità russe. Anche qui avevamo organizzato una orchestra e un coro, e pure un teatrino per noi nel cortile di una caserma all'aperto.

Io purtroppo non potei prender parte a quella bellissima manifestazione perché allora, già da molti giorni mi trovavo convalescente di un attacco di appendicite in un ospedaletto; ottenni soltanto dal medico il permesso di andare, accompagnato da due amici, a vedere il corteo.

In questa occasione fu cantato per la prima volta l'Inno nostro, ossia dei prigionieri irredenti in Russia; parole del maestro elementare Giuseppe Giacomelli di Predazzo, musica del giovane maestro Paolo Gallovich di Cherso. Cominciava così: «L'anima è triste - palpita il core - perché il dolore - dentro ci sta - La fredda terra - ch'ora ci raccoglie - è senza foglie - mesti ci fa.» Ritornello: «O Italia bella - terra d'amor - te la tua stella - sospira il cor.»

Un altro giorno fu pure celebrata una festa, ma di tutt'altro carattere: si trattava di onorare come si poteva i nostri morti, sepolti in terra straniera e tanto lontana, che mai lagrima di genitori o familiari avrebbe bagnato le zolle che li copriva.

Ho cercato di dare alla mia narrazione un carattere meno triste che fosse possibile, e di sorridere e far sorridere delle nostre condizioni, ma vi furono anche grandi stenti e dolori. Fin da quando i convogli ci trasportavano verso l'interno del paese, a ogni stazione si può dire, veniva deposto il cadavere di qualcuno dei prigionieri di Przemysl; specialmente di quelli che nella fortezza avevano patito la fame fino al punto di cibarsi alla fine delle carogne dei cavalli; in viaggio mangiavano avidamente con uno stomaco così indebolito, ammalavano e perivano. Anche nel Turkestan se ne andavano proprio quegli uomini che all'aspetto parevano i più robusti; un cimitero abbiamo lasciato sul colle dell'accampamento di Troisk. Ma i morti di Kirsanoff erano tutti italiani fratelli nostri. Con quanta tristezza, dopo che li avevamo sepolti, continuavamo a ricevere le lettere dei loro cari! Per questi morti si pensò di erigere un ricordo nel cimitero.

Riuscimmo a raccogliere il denaro necessario; chi aveva qualche rublo lo elargiva al pio scopo; aiuti ci vennero da Mosca e Pietrogrado; nelle loro passeggiate i soldati raccoglievano le pietre necessarie per le fondamenta e le portavano al luogo dove il monumento doveva sorgere. Questo consisté in una grande croce in cemento con nel mezzo la testa del Redentore, bella opera del nostro compagno di prigionia scultore Ermete Bonapace. Intorno quattro bassi pilastrini uniti da ringhiere chiudevano un breve recinto. Mancavano i marmi per l'iscrizione e i nomi dei morti. Ma venne a Kirsanoff il signor Virgilio Ceccato, ricco negoziante trentino da molti anni residente a Mosca; egli ci comperò dei marmi, non trovandone altrove, da un negoziante di mobili. Così ai lati del tronco della croce furono poste le lapidi coi nomi, e davanti sotto la testa di Cristo quella con le seguenti parole da me dettate: In memoria - degli italiani irredenti - morti nell'attesa - di rivedere la patria - libera dallo straniero - La pietà dei compagni - pose - Anno MCMXVI.

Il giorno dell'inaugurazione convenimmo tutti al cimitero per una mesta cerimonia; intervenne anche il Comando russo. Furono pronunziati discorsi adatti alla triste circostanza. Poi tutti a capo scoperto sfilammo innanzi al monumento funebre dei nostri compagni più disgraziati, che presto avremmo lasciato ancora più soli in quella terra lontana. E così nel cimitero di Kirsanoff, tra le caratteristiche croci ortodosse a più bracci obliqui, s'innalza la croce cattolica dei morti italiani.

Nel luglio credemmo imminente la partenza; venimmo a sapere ch'era giunta in Russia la missione militare italiana per il nostro rimpatrio presieduta dal colonnello Achille Basignano piemontese. E infatti pochi giorni dopo giunsero da noi il maggiore dei carabinieri Tonelli e altri ufficiali. Purtroppo, sia detto fra parentesi, gli ufficiali della missione trovarono che eravamo troppo liberi e che si faceva troppo il comodo nostro, e fu introdotta una più severa disciplina; essi non sapevano come eravamo vissuti per tanti mesi. D'altra parte però è certo che alcuni abusavano, che quasi tutti, invece di tornare in caserma la sera alle otto, stavano fuori fino alle undici e dodici, o magari andavano in giro per le «izbé» dei dintorni tutta la notte. Bastava al ritorno mettere in mano al « karaul» (soldato di guardia) un francobollo, che serviva come moneta, da dieci o venti kopeki; con questi soldi egli si comprava, essendo durante la guerra proibita la «vodka», qualsiasi altra bevanda spiritosa, che poi tracannava procurandosi delle solenni sbornie.

Però sopportammo in pace questa restrizione di libertà, visto che la partenza si avvicinava; e poi si trovava sempre il modo di scappar fuori eludendo la vigilanza dei guardiani. Mostravamo alle eventuali pattuglie una falsa «propuska», un foglio di carta con due righe di scritto e molti timbri contraffatti. Visti i timbri che incutevano loro un sacro rispetto, tenendo magari la carta capovolta dicevano «igì», vai.

Il giorno della partenza si avvicinava; e facemmo fare una bellissima bandiera tricolore, che fu riccamente ricamata dalle monache ortodosse di Kirsanoff, e fu un giorno solennemente inaugurata. Avemmo anche, ma naturalmente più piccole e meno sfarzose, le bandiere di Trento di Trieste dell'Istria del Friuli e della Dalmazia. Questo tricolore, destinato al museo del Risorgimento, sventolò a Rovereto dietro la bara della gentildonna marchesa Gemma Guerrieri Gonzaga, grande protettrice dei Trentini; era portata dall'Associazione trentina dei reduci dalla Russia; giacché i Trentini, bisogna dirlo a loro onore, furono i soli che seppero organizzarsi, tenersi in contatto fra di loro, aiutarsi anche dopo il ritorno, e non dimenticare i rimasti e quelli fatti prigionieri più tardi; anzi un trentino, l'avvocato Arlanch, fu incaricato dal R. Governo di andare in Russia a fare ricerche dei dispersi nei desolati immensi territori della Siberia; di questo viaggio e della sua attività egli diede relazione in un discorso tenuto nel marzo del '27 in una sala del Castello del Buon Consiglio.

Il troppo zelo dei trentini, che spedivano in Italia copie del giornaletto (e la fama ne era giunta fino in America; ci fu scritto da Los Angeles per avere dei numeri), e ne avevano intagliato in legno il titolo che stampavano sulle lettere, fu causa che il giornale finisse, per questa imprudenza, piuttosto male, e per poco non finissero peggio i suoi redattori. Vennero ordini al Comando di cercare e sequestrare ogni cosa; e un bel giorno un soldato russo si caricò sulle spalle la tipografia e se la portò con sé! Molti per paura stracciarono le copie che avevano, ma non tutto andò disperso o distrutto.

Finalmente un giorno, il 13 (data dunque infausta vedremo perché) di agosto si parte. Ognuno dà di piglio alla sua cassettina e, karauli in testa, si va alla stazione. Treno imbandierato; lungo la linea le «barisgne» ch'erano venute a darci l'ultimo saluto; sventolio di fazzoletti; e un po' alla volta ecco sparire dietro la piatta collina le cupole a cipolla e il campanile della cattedrale. A questo punto devo dire che, dopo un così grande naturale desiderio di partire e mentre i miei compagni cantavano e mandavano grida di gioia, io, vedendo allontanarsi la piccola città che ci aveva ospitato per tanti mesi e considerando la strana vita in essa vissuta, mi sentivo invadere da un senso di sottile malinconia, e pensavo che non sarei mai più ritornato in quei luoghi a un tratto divenutimi cari. Così è fatto, dice il Manzoni, questo guazzabuglio del cuore umano.

Passammo un'altra volta Tamboff Riazan Mosca Jaroslavi, ma giunti a Vologda non prendemmo verso oriente, come quando andammo a Orloff; proseguimmo direttamente verso nord; si doveva andare ad Arcangelo. Eravamo già vicini alla meta, quando, dopo tanti giorni di viaggio una notte, saranno state le undici, il treno si ferma a una piccola stazione dispersa in mezzo ai boschi; si chiamava Vozega. Ma ecco che quelli che vegliavano si accorgono che il treno retrocede. Perché? Un falso scambio? Si ritorna per qualche incidente fino a una più grande stazione vicina? No; si ritorna proprio definitivamente indietro. Il nostro colonnello russo non ne capisce nulla neanche lui; ha in mano una carta portatagli dal capostazione, con un ordine preciso: ritornare. Si può immaginare con che animo si ritornava! Qualcuno più esasperato cancellò dai vagoni gli evviva e vi disegnò grandi croci e teste di morto. Ma bisognò ritornare. E corri ancora, ma in senso opposto verso l'interno. Si giunge a Mosca. Speravamo di fermarci là; non volevamo retrocedere ancora. Ci sarebbero state anche le beffe di quelli di Kirsanoff, specialmente degli Ebrei germanofili che non ci vedevano troppo di buon occhio, e, per altri motivi comprensibili, dei giovani studenti. Già la sera prima della partenza ne avevo udito uno mormorare ai suoi compagni per la strada: «Zavtra vsiò Italianzi idiot k ciortu», domani tutti gl'Italiani vanno al diavolo. Ma tutte le nostre suppliche a nulla valsero. Ci assicurarono che la partenza era soltanto differita. Bisognò rassegnarsi e ritornare a Kirsanoff. E qui il colonnello Bassignano ci spiega: - La causa malaugurata del vostro ritorno è stata un'avaria alla nave che doveva portarvi in Italia; essa non è potuta partire dal porto inglese ove si trova tuttora. Alla fine del mese però partirete di nuovo. In alto i cuori! - Si, ma quale fine di mese? Secondo il calendario gregoriano o quello russo? Fatto sta che per quasi un mese ancora rimanemmo in attesa. Ogni giorno si diceva: Si parte domani; ma il vero domani non giungeva mai. E così tra la speranza e lo sconforto si stava nelle varie caserme a discutere, o, quando si poteva fuggire, si andava bighellonando nei dintorni, con le tasche sempre piene di «siemcki», che si mangiucchiavano tra i denti così per passatempo, come usano colà talvolta anche persone di riguardo.

Ma ecco è giunto il 14 settembre. Partenza, speriamo, definitiva. Tolgo le seguenti parole dal diario del compagno di prigionia Giuseppe De Manincor: «Alle sei e quarantacinque il treno fischiando per l'ultima di infinite volte, parte. E' tutto una festa di bandiere di tutti i colori, di tutti gli Alleati, e grandi e piccole e di seta e di tela e di carta; ogni carrozzone ha voluto avere a gara le sue, e abbiamo in esse profusi i nostri ultimi kopeki. Andiamo lenti tra continue fermate. Ma questa volta abbiamo imparato a non essere impazienti. Chi va piano va sano e va lontano».

Il 16 eravamo a Mosca. Ero passato già quattro volte dalla stazione di Mosca; mi pareva questa volta d'aver quasi il diritto di entrare in città per vederla più da vicino; pensavo che, perduta questa occasione, non l'avrei, con tutta probabilità anzi con certezza, veduta mai più. E allora, senza far parola ad altri, perché temevo che in compagnia la cosa non riuscisse, mi allontanai alla chetichella dal treno, girai in su e in giù, attraversai binari guardandomi attorno, scavalcai un muricciolo, ancora un piccolo uscio... ed ero fuori.

Imboccai una strada magnifica che conduceva proprio al centro della città. Non ero andato molto avanti che m'imbattei in quattro o cinque compagni che avevano fatto lo stesso gioco. Mi unii a loro, e continuammo per la medesima strada sempre all'insù. Un ragazzetto ci fermò per offrirci in vendita delle piccole fotografie. E giungemmo proprio davanti alla famosa cattedrale di San Basilio all'ingresso del Cremlino. Davanti alla chiesa all'aperto erano dei banchi sui quali una piccola folla, sempre rinnovantesi, stava genuflessa a pregare. Entrati nel Cremlino, ci inoltrammo titubanti per quelle magnifiche gallerie; cristalli magnifici di qua e di là; negozi d'una sontuosità straordinaria con dentro cose meravigliose. Noi, poveri diavoli, che da due anni non vedevamo che miserie, ci pareva di essere capitati in un paese incantato, non credevamo ai nostri occhi. Usciti dalle gallerie ci troviamo davanti al passaggio sotto la torre di Ivan il Terribile con in cima l'aquila imperiale. Si chiama Porta del Salvatore, Spaskia Vorotà; vi si trova anche una immagine miracolosa. Se la Russia è santa, se Mosca è la città santa della Russia e il Cremlino, l'antica residenza degli zar, è il centro di Mosca e quel punto è il centro del Cremlino, possiamo immaginarci quanta santità è concentrata in quel luogo. E infatti nessuno attraversa, o attraversava allora, quel sottopassaggio, se non a capo scoperto; anche l'«izvozcik», pubblico vetturino, si leva ogni volta che vi passa il suo berretto di pelo. Anche noi naturalmente, visto ciò, e a scanso di qualche scappellotto, ci levammo i copricapi, e passammo oltre sulla grande spianata tra i palazzi imperiali e la sottostante Moscova. Qui sono le famose enormi campane che ognuno ha ammirato in qualche veduta del Cremlino. Quella più grande è spezzata. Mi volli arrampicare (giacché posano su grandissimi piedestalli) fino alla spaccatura, e dovetti alzare il braccio per toccarne la parte superiore. Dentro giace a terra l'enorme battaglio. Sopra la Moscova ammirammo il superbo monumento allo zar liberatore Alessandro II, al quale i bolscevichi hanno gettato una corda intorno facendolo rovinare già nelle acque del fiume.

Dopo d'aver riposato alquanto sui sedili di marmo posti intorno al monumento che era coperto, uscimmo dal Cremlino aggirandoci in altra parte della città. Entrammo anche in una «ciainaia», dove, tanto per cambiare, ordinammo una tazza di tè. Con quel po' di russo che si sapeva cercavamo di passare per russi, ma capivano subito che non lo eravamo per la nostra parlata, ma forse ancor più perché avevamo messo lo zucchero a sciogliersi nelle tazze, mentre i russi usano mettere lo zucchero in bocca e bevervi sopra il tè! Perciò ci additavano dicendo «ghermanzi»!

Noi volentieri si sarebbe rimasti a Mosca, per vederla tutta, tre o quattro giorni; per comprare del pane avevamo qualche kopeko; per dormire non avevamo bisogno d'un albergo; l'angolo d'una strada ci sarebbe bastato. Ma questa volta si partiva davvero; e se i nostri che avevamo lasciato, appena giunti ad Arcangelo si fossero imbarcati e fossero partiti? Questo dubbio ci persuase a riprendere la via della stazione, dove giunti ci presentammo al capostazione, il quale senz'altro ci fece salire sul prossimo treno passeggeri, e con questo il giorno dopo raggiungemmo il nostro convoglio.

Per comprendere il «senz'altro» bisogna sapere che ognuno di noi aveva ricevuto alla partenza da Kirsanoff una piccola tessera sulla quale stava scritto: «Italjanskij soldat - Napravljaetsja v Italiju cerez Arhangelsk», si invia in Italia per Arcangelo. (A questo proposito mi dispiace ma non so trattenermi dall'aprire una breve parentesi. Dunque posto piede su suolo italiano siamo diventati per la questura, malgrado le belle parole di Torino, soltanto degli stranieri. Non si poteva darci un pezzo di carta che ci distinguesse da un tedesco o da un turco. Che italiani, che irredenti! Ecco qua il «foglio per gli stranieri», e se non lo volete vi mettiamo dentro! - Stranieri e basta. Pazienza! - Chiusa la parentesi.)

Passati ancora una volta da Jaroslavl, da Vologda e da Vosega, la stazione del dietrofront, si giunse alla riva sinistra della Dvina dinanzi ad Arcangelo, il venti settembre. Un grande piroscafo era accostato alla banchina; ed ecco che i triestini ravvisano subito in esso un conoscente: era un piroscafo del Lloyd Triestino, il Koerber, sul quale qualcuno di loro aveva lavorato o col quale aveva navigato. L'Austria ci offriva il mezzo per il rimpatrio; veramente troppa cortesia! Anche esso era dunque prigioniero di guerra. Era stato sequestrato all'inizio delle ostilità nel porto di Alessandria e aveva cambiato il nome dell'uomo di Stato austriaco in quello inglese di «Huntspiel». Subito fu innalzato all'albero di poppa un grande tricolore.

Non si partì di là che all'alba del 25. Non avevo potuto andare in città ad Arcangelo; ma con la nave vi passammo davanti così vicino, che si poteva vedere le rive le vie le piazze e le chiese con le loro cupole come in tutte le città russe. Arcangelo non è situata sul mare. Prima di giungere da essa al mare aperto bisogna navigare a zig zag per un dedalo di canali in mezzo a piatti isolotti per alcune ore.

Era tempo che si partisse, giacché il porto di Arcangelo, per la sua posizione, rimane presto ostruito dai ghiacci. Se tardavamo ancora qualche settimana, ci toccava, come ad altri dopo di noi, fare il giro del mondo, poiché allora non era terminata la ferrovia da Pietrogrado a Porto S. Caterina sulla costa della Murmania, il quale porto, sebbene più settentrionale di Arcangelo, è tutto l'anno sgombro da ghiacci per il benefico influsso della corrente del Golfo, che non penetra nel Mar Bianco. A questa ferrovia attendeva allora febbrilmente la Russia, facendovi lavorare specialmente operai cinesi, per non essere nell'inverno tagliata fuori completamente da ogni comunicazione con gli Alleati.

Navigammo nel Mar Bianco tutto quel giorno; la notte la passammo dietro un isolotto fortificato, vicino alla costa della penisola di Kola. Sulla roccia brulla dello scoglio si profilavano semplici e rozze croci di legno a ricordare le vittime dei sottomarini germanici e delle loro mine. In quel tempo infuriava la guerra dei sottomarini. Il giorno dopo si doveva passare la parte più stretta del Mar Bianco. Si procedeva così: Davanti una di qua e una di là due torpediniere russe che trascinavano tesa tra l'una e l'altra, una rete pescamine; dietro a una certa distanza, altre due torpediniere allo stesso modo, con un'altra rete, e sulla scia d'una quinta torpediniera che andava cauta e lenta dietro la seconda rete, ancor più cauta procedeva la nostra nave. Così solo a mezzogiorno del 27 giungemmo nel mare aperto di Barents. Allora la nostra sirena salutò le cinque torpediniere che ci lasciavano, e la nave cominciò a filare le sue quattordici miglia, puntando a nord-est, verso l'Oceano Artico.

Si vide ancora per poco la desolata costa murmana, e poi più niente altro che cielo e mare. A poppa due marinai inglesi sempre pronti al cannone antisommergibile. Altri marinai cercano di farci stare allegri suonando con certe loro pive e tamburelli l'inno inglese. Si doveva avere sempre intorno alla vita la cintura di salvataggio; v'erano inoltre molte zattere con delle corde alle quali dovevamo attaccarci in caso di siluramento.

Intanto s'era levato un vento gelido e furioso, e quindi onde altissime. Per dirla in breve ballammo sull'oceano per cinque lunghi interminabili giorni una danza furibonda. Tutto a bordo correva da una banda all'altra, tutto ruzzolava via in tutti i sensi; non si poteva stare in piedi; bisognava avanzare sempre aggrappati a qualche cosa; tutto fischiava, tutto scricchiolava; le ondate avevano spazzato via dalla tolda tutti i casotti costruiti per i servizi,

Quello che si sofferse per il mal di mare non si può descrivere. Ormai nessuno pensava più ai sottomarini; eravamo già più morti che vivi; chi aveva voglia di mangiare? Tutti giuravano di non mettere piede mai più in vita loro su di una nave. Più di uno sarebbe volentieri tornato indietro. E neve e freddo.

Come Dio volle il mare si calmò alquanto, e il due ottobre passammo vicino al gruppo delle isole Faroer, che si alzavano ripide e selvagge dalle acque. Da esse sbucò un incrociatore francese che c'intimò l'alt con un colpo di cannone; bisognò ubbidire; e quindi tra le due navi avvenne un lungo scambio di segnali con banderuole, finché si intesero e potemmo proseguire.

La mattina del giorno seguente, quando ci svegliammo, un bel sole illuminava da una parte i monti della Scozia e dall'altra le belle isole Ebridi. Eravamo all'entrata del canale del Minch. Quindi proseguimmo lungo le coste della Scozia, tutte frastagliate e punteggiate di bellissime isolette e scogli, finché verso sera entrammo nell'estuario del fiume Clyde: da una parte e dall'altra un'infinita serie di cantieri con navi in costruzione. Tutti siamo sul ponte o arrampicati alle sartie; ecco scendere una nave italiana: grida, evviva, saluti. A notte siamo a Glasgow, accolti dalle baionette dei soldati scozzesi col gonnellino. Nella stessa notte e al mattino seguente attraversammo tutta l'Inghilterra in mezzo a una serie quasi ininterrotta di fabbriche e di opifici; di quando in quando un bel prato verdissimo con animali al pascolo: lì si alterna il verde carico al nero del carbone. Alle undici circa giungemmo a Southhampton.
La traversata della Manica si compì di notte, e fu l'ultimo colpo del destino. Fu una notte burrascosa tremenda veramente infernale. Soffrivano persino i marinai inglesi. Noi, buttati a corpo morto bocconi sui pavimenti dei vani locali o sui fondi delle stive, con davanti alla bocca la gavetta, non proprio per mangiarvi, con le braccia allargate aspettavamo, pallidi e smorti, che il fato si compisse. Ma anche questa passò, e la mattina dopo sbarcavamo a Cherbourg accolti fraternamente dalle baionette francesi.

Questa volta protestammo; quindi si attraversò la Francia accompagnati dai soldati francesi, ma senza baionette inastate e senza fucili. Passammo per Le Mans e Lione, non più in veste di prigionieri, salutati con simpatia dalla popolazione. A Modane il primo saluto di quella colonia italiana. Urla di gioia e grida di «Viva l'Italia» al fermarsi del treno sul confine dentro il traforo del Cenisio.

Il giorno nove ottobre giungemmo a Torino, accolti dai torinesi con dimostrazioni d'affetto davvero commoventi. Alla stazione ci porse il saluto del Governo e della Patria il ministro Comandini, e quello della città il sindaco senatore Rossi.

E la nostra odissea aveva fine.

[Fine]


Da babatriestina
Inviato: Sab, 08 Gen 2005 06:07
Zio Piero, fradel de mia nona, socialista e anarchico, durante la prima guera se ga trovado più o meno in questa situazion, mi co lo go conossudo nei ani Cinquanta el iera un vecio coi cavei bianchi e el paralva poco con noi fioi, ma mama me contava che el iera stado fato prigioniero dei russi e el diseva che bona gente qeui che el ga avudo de far lu. Anca lu devi gaverghe parlado sloven per farse capir.
Per i triestini in Galizia, ghe iera una canzon triestina, Piero pomiga, che descriveva el scarso entusiasmo dei triestini mandai sul fronte dela Galizia.


Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera

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Messaggio da AdlerTS »

Mi ricollego qua per una piccola ricerca fatta con Wikipedia, anche se ho già chiarito di non amarla particolarmente: parte tutto dall'articolo del sito ufficiale del Comune di Chivasso che scrive che nel 11 Novembre 1918, data che segna l'Indipendenza della Polonia, si ricorderà che nel 1918 migliaia di soldati polacchi, prigionieri dell'esercito austo-ungarico, arrivarono a La Mandria di Chivasso. Alcuni tra loro, provati dalla durezza della guerra, non riuscirono a tornare in patria e vennero sepolti nel camposanto di Chivasso e nel cimitero di La Mandria; gli altri si organizzarono per rientrare in patria per difendere l'indipendenza appena conquistata. A ricordo di quei giorni, è intervenuto il Sindaco di Chivasso, Bruno Matola: «Non è abbastanza conosciuta, come invece meriterebbe, la vicenda dei 12 mila soldati dell'esercito polacco prigionieri presso la tenuta Sabauda de La Mandria di Chivasso. Si tratta invece - ha aggiunto il Primo Cittadino - di una storia che merita il ricordo, merita di essere tramandata, perché rappresenta un momento significativo nel Risorgimento italiano e un evento decisivo per la Guerra di Indipendenza della Polonia: è un interessante tassello di quel percorso che tra la fine dell'800 e la Prima Guerra Mondiale porterà alla formazione di molte Nazioni Europee come oggi le conosciamo».

C’e qualcosa che non mi và. Leggendo sempre sullo stesso sito si scopre che:

Nell’autunno del 1918 gli hangar dell’aeroporto militare di Chivasso furono trasformati in baracche, usate per offrire un’ospitalità temporanea ai soldati di nazionalità polacca dell’esercito austro-ungarico che, a seguito degli accordi tra il Governo italiano e il Comitato Nazionale Polacco di Parigi, accolse i volontari dell’esercito polacco allora in via di formazione, arruolati tra i prigionieri dell’esercito austro-ungarico.
Complessivamente il campo ospitò circa 200.000 militari polacchi, che nel corso del 1919 furono inviati in Francia, da dove raggiunsero la Polonia che aveva da poco riacquistato l’indipendenza. Il piccolo cimitero della Mandria accolse i primi venti militari deceduti dopo l’arrivo in Piemonte e in loro memoria fu posta la lapide recentemente restaurata a cura dell’associazione “La Mandria monumentale”; in seguito, perdurando l’epidemia alcune centinaia di militari furono sepolti nei cimiteri di Chivasso, Ivrea e Torino, dove riposano tuttora.


Il sito non spiega esattamente: contro chi combatterono ? Dal testo pare di capire che ritornassero in patria per rivoltarsi contro la monarchia danubiana.

La proverbiale Wiki ricorda che:

Dopo le guerre napoleoniche, il Regno di Polonia, conosciuto come "Polonia del Congresso", governato dallo zar russo, possedeva una costituzione liberale. Tuttavia gli tsar Russi ridussero presto le libertà della Polonia, finché la Russia annesse di fatto il paese. Più tardi, nel XIX secolo, la Galizia governata dall'Austria divenne l'oasi polacca di libertà.

E ancora

Dopo il congresso di Vienna del 1815, nei confini dell’attuale Polonia, abbiamo la Città Libera di Cracovia, città-stato controllata da Russia, Prussia e Austria-Ungheria fino al 6 novembre 1846, quando fu annessa all'Impero Austro-Ungarico come Granducato di Cracovia.

Dal 1873, la Galizia fu de facto una provincia autonoma dell'Austria-Ungheria, con il polacco come lingua ufficiale e, a un livello molto inferiore. La Germanizzazione era stata fermata e la censura sollevata. La Galizia fu soggetta alla parte austriaca della monarchia duale, ma la Sejm galiziana e l'amministrazione provinciale ebbero privilegi e prerogative estese, in particolare nel campo di istruzione, cultura e affari interni.
Dopo la Guerra Austro-Prussiana del 1866, l'Austria concesse l'autonomia alla Galizia, stabilendo che il polacco fosse impiegato come lingua di governo e installando una dieta provinciale. Espressosi in queste forme, il dominio austriaco fu molto più morbido di quello esercitato dalla Russia e dalla Prussia;


Da questo piccolo riassunto , mi pare di poter concludere che il primo oppressore fosse la Russia. Non a caso il termine di “Miracolo della Vistola” per la Battaglia di Varsavia, contro i Russi, non è stato inventato da terzi, ma dai polacchi stessi che videro nell'intercessione della Madonna Nera di Czestochowa la vittoria contro la Russia nel 1920.

Tornando all'articolo iniziale del Comune di Chivasso, dove si diceva Si tratta invece di una storia che merita il ricordo, merita di essere tramandata, mi piacerebbe capire perché non vengano mai nominati i Russi.


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Messaggio da babatriestina »

Per capire i dubbi di Adler sui Polacchi alla fine della prima guerra mondiale, forse è il caso di ricordare alcuni punti storici sulla Polonia nei secoli precedenti: La Polonia era un regno che si ampliò e ridusse , soprattutto fra il XVI e il XVIII secolo, vi fu un periodo in cui si era accresciuto a spese della Russia ( ricordate, nell'opera Boris Godunov, i Polacchi che invadono la Russia?). Le caratteristiche, fra l'altro, della Polonia, erano di esser un paese cattolico a fianco di vicini russi ortodossi e di avere una monarchia elettiva che non riusciva ad imporsi sulla nobiltà: se andate a sfogliare Wiki, c i troverete perfino un futuri re di Francia, Enrico III ( figlio di Caterina de Medici, seconda metò del Cinquecento) eletto per breve tempo re di Polonia e fuggitone all'ascesa al trono di Francia, poi una guerra di successione polacca fra un Lesczinsky ( suocero di Luigi XV) e un re di Sassonia nel Settecento..per finire all'ultimo re di Polonia, Poniatowsky, ex amante della zarina Caterina, che era ormai del tutto dipendente dalla Russia. Alla fine del Settecento ci furono tre spartizioni della Polonia, fra Russia, Prussia e Austria, che pian piano la fecero del tutto sparire.
Cercate su Wiki e ci troverete anche le cartine.
Durante le guerre napoleoniche, nel fervore patriottico un po' diffuso, i Polacchi chiesero la ricostituzione di uno Stato ( Maria Walewska si dice si desse all'imperatore in principio per interessarlo alla causa nazionale) e si creò un breve Granducato di Varsavia che ebbe breve vita.

Sulla forma di autonomia e di liberalità della costituzione del "Regno del Congresso" ( creato dal Congresso di Vienna) nel seno dell'Impero russo, non ho abbastanza informazioni, se non quelle che trovo su Wiki. Tanto liberale non fu, se nel 1830 i russi dovettero reprimere insurrezioni
http://it.wikipedia.org/wiki/Rivolta_di_Novembre
Fu in tale occasione che il musicista Chopin decise di non ritornare in patria.
Possiamo discutere quali fra i Polacchi , sottomessi alle tre Potenze , in periodi diversi, godesse delle maggiori libertà, ma è certo che in cuor loro aspettavano la ricostituzione di un loro Stato indipendente, come avvenne al termine del 1918.
Per i Polacchi della Galizia nell'impero austriaco, resta il problema della relazione con i Ruteni, ossia gli Ucraini, pure presenti nel territorio: vi erano tensioni etniche, culturali e anche quasi sociali, nel rapporto fra città e campagna, se non mi sbaglio i cittadini erano polacchi e i contadini erano ruteni.


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Messaggio da 1382-1918 »

AdlerTS ha scritto:La proverbiale Wiki ricorda che:

Dopo il congresso di Vienna del 1815, nei confini dell’attuale Polonia, abbiamo la Città Libera di Cracovia, città-stato controllata da Russia, Prussia e Austria-Ungheria fino al 6 novembre 1846, quando fu annessa all'Impero Austro-Ungarico come Granducato di Cracovia.


L'Impero diventa austro-ungarico nel 1867, per cui su wiki sbagliano ad usare tale definizione per dei fatti risalenti a prima, come in questo caso.


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[size=75][i]"Quando comincia una guerra, la prima vittima è la Verità.
Quando la guerra finisce, le bugie dei vinti sono smascherate,
quelle dei vincitori, diventano Storia."
(A. Petacco - La nostra guerra)[/size][/i]
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serlilian
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Sui Carpazi.
Allegati
in marcia
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la scalata delle nostre truppe
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Battaglia contro i russi.
Battaglia contro i russi.


[i]Liliana[/i]
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[size=75][i]"Quando comincia una guerra, la prima vittima è la Verità.
Quando la guerra finisce, le bugie dei vinti sono smascherate,
quelle dei vincitori, diventano Storia."
(A. Petacco - La nostra guerra)[/size][/i]

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