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storia_ts:storia:1699_1813



La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.

LIBRO SECONDO: 1699 – 1813

Alcuni avvenimenti di grande portata internazionale stanno alla base della decisione dell'imperatore Carlo VI d'Asburgo di concedere “temporaneamente” a Trieste e a Fiume la patente di porto franco ed i privilegi connessi.

La sconfitta dei turchi ad opera delle armate asburgiche ed alleate, a partire da quella decisiva alle porte di Vienna nel 1683 fino alla pace di Požarevac (Passarowitz, in lingua tedesca) nel 1718, avevano definitivamente bloccato il secolare espansionismo ottomano verso occidente e liberato territori vastissimi su cui la casa d'Asburgo poteva rivolgere la propria attenzione e le proprie mire.

Contemporaneamente la grave crisi militare e politica in cui versava la Serenissima aveva trovato nella riconquista della Morea da parte dei turchi una conferma inequivocabile. Venezia era ormai incapace di garantire la sicurezza dell'Adriatico e si trovava in qualche modo circondata dai domini asburgici che, all’indomani della guerra di successione spagnola, si erano estesi al regno di Napoli, alla Sardegna, nonché ai ducati di Milano e di Mantova.

In questo nuovo scenario è ben comprensibile che gli Asburgo decidessero di creare degli sbocchi a mare per il nuovo vastissimo hinterland su cui non incombeva più, dopo secoli, il pericolo turco. Le reali intenzioni di Carlo VI furono infatti evidenti quando, tra il 1724 ed il 1728, venne costruita la nuova strada Trieste-Vienna attraverso la sella di Postumia e vennero restaurate le strade del Vipacco e del Predil, al fine di attirare sempre più Trieste e Gorizia verso l'entroterra austriaco. Veniva così coronato il sogno secolare dei triestini di “voltare” i commerci provenienti da nord verso il loro porto.

Le decisioni imperiali determinarono l'immediata reazione del patriziato triestino, timoroso di ogni novità che mettesse in pericolo i vecchi privilegi e le tradizionali fonti di profitto, soprattutto da quando la città “nuova” aveva iniziato a svilupparsi rapidamente attraverso l'interramento delle saline e l'insediamento di un numero sempre più ampio di attività commerciali.

Solo nel 1748, dopo la fine della guerra di successione austriaca, la figlia di Carlo VI, Maria Teresa, poté riprendere con forza la politica del padre: riconfermata legittima erede dei beni asburgici con la ratifica definitiva della “Pragmatica sanzione” da parte delle altre potenze, da alcuni anni moglie dell'imperatore, Maria Teresa fu in grado di dare un vigoroso impulso a quelle scelte di espansione e di rinnovamento che investivano in modo diretto il porto di Trieste: sulla scia di una vecchia iniziativa di Carlo VI, venne decisa l'istituzione di una nuova Intendenza commerciale (“Commercial Intendenz”), che estendeva i propri poteri sul Litorale (“Litoral”), vera e propria provincia dell'impero – territorialmente ancora non compatta – che comprendeva Fiume, Aquileia, Porto Re, Segna, Carlopago. Trieste ne divenne la capitale.

Negli anni seguenti (1749-1752), con due successive “Risoluzioni sovrane”, Maria Teresa ridisegnò i fondamenti istituzionali e gli istituti giuridici del porto franco e della nuova provincia, abbandonando definitivamente quella impostazione protezionistica e quella concezione patrimoniale dello stato che avevano caratterizzato ancora le scelte di Carlo VI.

Furono così potenziati i traffici commerciali, in particolare il settore delle importazioni, con l'istituzione di un efficiente servizio postale, la regolazione dei pedaggi verso Trieste e il litorale austriaco, e la concessione di numerose facilitazioni ai commercianti greci e turchi al fine di convogliare verso Trieste le loro attività imprenditoriali.

Solo con l'opera di Maria Teresa si verificarono dunque le condizioni necessarie per la creazione del porto franco e quindi il decollo della città, inserita ormai organicamente all'interno della generale rinascita economica che si stava verificando nei territori degli Asburgo.

Sorsero inoltre in questo periodo l'acquedotto, il molo Santa Teresa (oggi molo Fratelli Bandiera), il molo San Carlo (oggi molo Audace, in ricordo della prima nave italiana che vi approdò il 3 novembre del 1918), un secondo lazzaretto, la nuova dogana, e, nel 1771, la nuova parrocchia di Sant'Antonio, con una chiesa al limite del Canale che raggiungeva quella che attualmente è la via XXX ottobre.

In questa logica di sviluppo si ordinò anche l'abbattimento delle mura, tradizionali custodi del vecchio patriziato e del suo mondo: “Bisognava che l'antica città solidarizzasse con i novovenuti” – scrive Attilio Tamaro – “si unificasse col Distretto Camerale. Ma i patrizi, che temevano la commistione, evitano di obbedire”.

Era il loro un mondo che volgeva al tramonto: in quegli stessi anni più di un nome degli appartenenti alle antiche casade comparve negli elenchi dei poveri!

Pochi anni dopo, l'istituzione del porto franco fu estesa a tutto il territorio cittadino, favorendo l'arrivo in città di un gran numero di artigiani, manovali, piccoli imprenditori, facchini, tutti attirati dal miraggio di facili guadagni e dalle immunità generosamente concesse.

La nascita della Trieste borghese non solo modificò in modo decisivo la vecchia realtà urbanistica, ma incise profondamente anche in campo religioso e culturale.

Oltre ai ricchi imprenditori greci e turchi – ortodossi e musulmani – accorsero in misura sempre maggiore anche commercianti e imprenditori ebrei, richiamati dalle nuove garanzie assicurate da Maria Teresa e poi dal figlio Giuseppe II ai loro correligionari che già abitavano nella nostra città.

A partire da questo periodo la comunità ebraica ebbe infatti un notevole sviluppo, come dimostrano i dati del 1788, anno nel quale la comunità contava ben 670 membri, divisi in 153 famiglie.

L'aumento dei fedeli rese ben presto necessaria la costruzione di una “scuola” più ampia (con il termine “scuola” si chiamava allora il tempio o la sinagoga) e la comunità deliberò l'acquisto dell'edificio dei fratelli Morpurgo, originari di Gorizia, all'angolo della piazzetta delle Scuole israelitiche con via delle Beccherie: qui venne edificato il nuovo luogo di culto, che prese il nome di “Scuola grande” o “Tempio numero due”.

Stava così nascendo, negli ultimi decenni del secolo, quella città tendenzialmente laica, tollerante, multiconfessionale, in cui i cattolici convivevano con forti minoranze ortodosse ed ebree e mercanti delle più diverse origini operavano insieme.

Nasceva all'interno di uno stato imbevuto di idealità illuministiche e di fiducioso empirismo, sotto la spinta di una classe dirigente che considerava suo compito fondamentale assicurare a tutti possibilità di benessere – “Sicherheit und Leichtigkeit der Erwerbung”, come insegnava Joseph von Sonnenfels, vera eminenza grigia dell'illuminismo asburgico – senza imporre credi religiosi o patenti di nazionalità.

Una realtà composita che si impose alla fine nonostante le resistenze locali: da una parte, infatti, i gesuiti protestarono per l'abolizione delle istituzioni e delle confraternite religiose ritenute inutili, decisa da Giuseppe II per limitare l'influenza del clero sulla popolazione, dall'altra gli ambienti legati alla Borsa cercarono in ogni modo di boicottare i programmi governativi di potenziamento industriale, come i tentativi di riforma agraria e d'impiego di capitali nelle campagne.

Era un mondo nuovo in fermento, che il patrizio de Giuliani, buon conoscitore dei filosofi illuministi e della nuova realtà europea, registrava con insolito acume: “Altre volte il mondo era tutto dei conquistatori. […] Oggi tempi più felici presentano un quadro assai diverso per l'umanità. Non si calcola più nei fasti di un monarca il numero delle città demolite, ma quello delle città edificate. Si osservino gli spiriti mediante una felice rivoluzione già inclinati ad un nuovo ordine di idee cessar d'occuparsi delle chimere, che prima assorbivano tutte le nostre attività fisiche, e morali. […] A Trieste venga l'uomo di riflessione a meditare sopra il modo con cui nascono e si formano le città”.

Su questo scenario di progresso materiale e culturale irruppero le prime notizie sulla rivoluzione in Francia, senza destare all'inizio grandi paure: l'isolamento della Francia e le sue difficoltà interne e internazionali favorivano anzi i porti di Venezia e di Trieste e le aspettative di molti ambienti imprenditoriali erano a dir poco rosee.

Lo testimonia lo stesso capo della polizia, il barone Pierantonio Pittoni, che nelle sue lettere all'amico Zinzendorf dapprima mostra di sperare che “la rivoluzione francese arricchirà Trieste, invece di bombardarla” e poi ammette che “il nostro commercio prospera sulla distruzione dell'Europa”.

La congiuntura rimase ancora favorevole per qualche anno, ma verso la metà del 1796 le cose si misero al peggio: il denaro cominciò a scarseggiare, lo sviluppo delle idee giacobine terrorizzò molti ricchi borghesi e i francesi giunsero a Bassano, minacciando di arrivare fino in città a “recuellir les richesses qui sont à Trieste”.

Più tardi, dal momento che i francesi non si muovevano, la “tremarola” – come disse Zinzendorf – si calmò. Gli affari, però, avevano avuto un immediato tracollo e il futuro appariva ora incerto e minaccioso.

Quando nel 1797 i soldati di Napoleone, dopo aver occupato Venezia, giunsero in città, non pochi, soprattutto tra i popolani e i negozianti, accolsero con favore i figli della rivoluzione. L'immagine che la città dette in questo frangente agli occupanti francesi fu molto seducente, come ricordò il generale Desaix: “Interessantissimi a Trieste sono i costumi che si vedono per le strade, di gente di tutte le nazioni e specie. Tedeschi e ungheresi che vengono a caricare le mercanzie […], gli ungheresi vestiti alla hussara […], mentre i tedeschi hanno cavalli grandi e carri enormi. E poi tanti levantini di tutte le specie, greci, turchi dell'Asia minore, dell'Africa, ognuno col suo costume caratteristico, tutti con brache larghissime fino al ginocchio; molti portano i capelli neri attorti in trecce […]. Quelli di Smirne hanno sovrapposte due tuniche ampie e lunghe […]. I turchi sono in sandali, chi a gambe nude, chi con pantaloni ampi […], seduti a gambe incrociate su tutte le banchine, fumano in continuazione le loro lunghissime pipe”.

Le intenzioni di Napoleone erano però ben lontane dalle aspettative di rinnovamento che animavano ampi settori del terzo stato e quando il generale francese cedette all'Austria, in cambio della Lombardia e dei Paesi bassi austriaci, la città di Venezia, l'Istria, la Dalmazia e le isole adriatiche, il Friuli e la terraferma fino all'Adige, la situazione cambiò drammaticamente.

Per altre due volte, tra il 1797 e il 1813, gli eserciti napoleonici occuparono la città, sconvolgendo i vecchi assetti e i tradizionali confini.

Nel 1809, dopo la vittoria di Wagram, Trieste entrò a far parte di un nuovo stato satellite della Francia, le “Province illiriche”, che secondo i piani di Napoleone dovevano costituire una sorta di antemurale ai confini dell'impero, la punta avanzata nella sua strategia di contenimento della Russia zarista: tale sarebbe rimasta fino al 1813, al ritorno degli Asburgo.

La presenza dei francesi accelerò in modo significativo la modernizzazione e la liberalizzazione delle istituzioni cittadine: “La politica legislativa napoleonica” – sottolinea Negrelli – “fa cadere definitivamente i rami secchi delle vecchie istituzioni medioevali, che gli Asburgo, pur svuotandole di contenuto, avevano mantenuto ancora in vita”.

Si ebbero un primo sviluppo della dialettica politica tra partiti ed un riconoscimento concreto dei diritti delle minoranze religiose: nel 1806, durante la seconda occupazione della città, il mercante Aron Vivante, di religione ebraica, venne chiamato a far parte della “Magistrature publique, politique et économique” insediata dal generale Massena.

Fu inoltre portata a termine una radicale ristrutturazione amministrativa: la Borsa venne sostituita da una Camera di commercio, vennero aboliti i privilegi nobiliari e lo stesso Consiglio dei patrizi venne sostituito con una “Mairie”.

Il vecchio Municipio divenne sempre più un centro cosmopolita, come sottolineava nelle sue memorie il generale Marmont ricordando la struttura etnica di quella bizzarra regione – le Province illiriche – che Napoleone gli aveva dato da amministrare: “I due milioni di abitanti eran composti di tedeschi, illiri (cioè slavi), italiani, albanesi e, infine, di persone di tutti i paesi, a Trieste”.


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