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storia_ts:storia:1945_1948



La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.

LIBRO SETTIMO: 1945 – 1948

Parte prima: 1945 – 1946

I nove anni che divisero la fine della guerra dalla firma del Memorandum di Londra furono anni in cui le sorti della città vennero sempre decise al di fuori dei suoi confini, molto spesso al di fuori della sua stessa capacità di comprensione.

Eppure, in un certo senso, il dramma di quel periodo fu dovuto in primo luogo al fatto che negli ultimi mesi di guerra le grandi potenze, sia pure per motivi diversi, non avevano preso alcuna decisione sul destino di questi territori.

Lo comprese subito Geoffrey Cox, giunto a Trieste con la II Divisione neozelandese il 2 maggio 1945. Fino all'Isonzo – racconta – i soldati erano stati salutati come liberatori. Al di là del fiume l'atmosfera cambiò improvvisamente: “C'era qualcosa di diverso. Ci sentimmo stranieri in una terra straniera, come se all'Isonzo avessimo varcato un confine non tracciato, ma certo. Infatti era così. Eravamo passati dall'Italia in quella che doveva diventare la terra di nessuno tra l'Europa orientale e l'Europa occidentale, e come ogni terra di nessuno era estremamente inospitale. […]

Trieste doveva il suo destino al fatto di essere l'unica zona in Europa in cui gli Alleati occidentali e l'Unione Sovietica non avevano stabilito in anticipo una linea di demarcazione inequivocabile. Entrambe le parti […] avevano pensato che ci sarebbe stato tutto da guadagnare a lasciare nel vago il futuro della Venezia Giulia”.

La stessa presenza delle truppe jugoslave a Trieste, in quei celebri “quaranta giorni” che ritornano così spesso alla memoria, si stagliò sullo sfondo di una città che fu in qualche modo anch'essa “terra di nessuno”.

Anche un'altra testimone di quelle giornate, la corrispondente del Manchester Guardian Sylvia Sprigge, giunta in città con i soldati neozelandesi, se ne accorse immediatamente e registrò accuratamente nel suo Diario questa drammatica situazione.

Quando migliaia di contadini sloveni organizzarono una massiccia manifestazione per le vie di Trieste per salutare la vittoria e la fine della guerra, gran parte della popolazione li guardò estranea, chiusa in un profondo silenzio: “Era evidente che, tornando a casa, i contadini si rendevano conto che qualcosa della manifestazione di Trieste non era riuscito: nessuno veniva a dare loro il benvenuto”.

La vecchia città “borghese” non aveva smesso il suo rapporto schizofrenico con il “contado” circostante. Quando negli stessi giorni Quarantotti Gambini assistette ad una manifestazione della “gente del Carso” attraverso la città non andò al di là dei secolari stereotipi: “Sono piccoli, in genere, questi sloveni; notevolmente più bassi di quella che è la statura media dei triestini, che suonano stranamente qui a Trieste. Questa differenza risalta più ancora nelle ragazze. Le slovene, di corporatura corta e muscolosa (il fisico di tante servotte, pulitissime, oneste e formidabili lavoratrici, delle cosiddette “donne del latte”), sono esattamente l'opposto delle triestine, dai torsi slanciati e dalle gambe lunghe. […] Penso come sarebbe un'autentica manifestazione triestina. Si procederebbe – reggendo il tricolore – quasi di corsa, e un inno proromperebbe da tutti i petti. E le ragazze irruenti, infuocate, sfilerebbero in testa”!

Mentre tanta parte della borghesia liberalnazionale continuava a guardare in questo modo alla complessa realtà sociale ed etnica della città e del “contado”, le autorità militari jugoslave mostrarono subito le proprie intenzioni. Fu reso noto alla cittadinanza che ogni potere veniva assunto dal Comando Città di Trieste e che si era ancora in stato di guerra: era la IV Armata ad aver liberato la città e spettava ad essa combattere fino a debellare definitivamente gli ultimi focolai di resistenza tedesca ed imporre anche sul piano politico il controllo sulla città!

Le autorità militari jugoslave sapevano benissimo che il tempo a loro disposizione era molto esiguo e che, in conformità agli accordi presi a Belgrado tra Tito e il generale Alexander, gli alleati avrebbero riconosciuto soltanto le amministrazioni civili già insediate al momento della occupazione.

Per questo motivo venne emanata nel volgere di pochi giorni una serie di ordinanze che dovevano trasformare profondamente la struttura amministrativa ed economica della città ed avviarne la trasformazione in senso socialista.

Venne imposto il controllo sulle banche e vennero sospese le attività delle società di assicurazione; risultò subito evidente la volontà di considerare come “sussidiarie” l'economia di Trieste e quella della Slovenia e a tal fine venne organizzato con una certa solennità un incontro tra una rappresentanza degli industriali triestini e il Governo nazionale sloveno.

In città l'ordine pubblico fu mantenuto con grande durezza e pochi giorni dopo la liberazione ci furono i primi morti.

Il 5 maggio, durante una manifestazione organizzata dal CLN, le guardie jugoslave aprirono il fuoco su un corteo che stava passando per via Pellico, inneggiando all'Italia. Vennero uccise 5 persone e numerosi furono i feriti. Il giorno dopo Il nostro avvenire, allineato sulle posizioni jugoslave, pubblicò un articolo in cui si sosteneva che la manifestazione era stata organizzata da elementi fascisti e nazisti e che nel futuro sarebbe stato stroncato ogni attentato alle libertà democratiche che il popolo aveva appena conquistato: nella stessa giornata venne emanata l'Ordinanza N. 7, con la quale si vietava ogni manifestazione di intolleranza nazionalistica, qualunque ne fosse l'origine.

Dopo il 5 maggio non vi furono più manifestazioni.

Nello stesso tempo venne portata avanti una dura politica di repressione sia nei confronti dei fascisti e degli ex collaboratori sia nei confronti di coloro che apertamente mostravano di volersi opporre alle mire espansionistiche jugoslave.

Molti vennero arrestati e portati nei campi di concentramento. Molti vennero uccisi dopo processi sommari o finirono la loro vita nelle “foibe”: “Il dramma che vi si svolse” – scrive Apih – “aveva la sostanza politica. La presenza di volontà organizzata non è dubbia. Eliminazione fisica dell'oppositore e nemico (di forze armate giudicate collaborazioniste) e, insieme, intimidazione e, col giustizialismo sommario, coinvolgimento nella formazione violenta di un nuovo potere.

[…] Nel 1945 Trieste fu, per quaranta giorni, lambita dall'onda di una rivoluzione; la “porta orientale” aveva ceduto”.

Questa volta, a differenza di quanto era avvenuto all'indomani dell'armistizio, il fenomeno dell'eliminazione fisica degli avversari, il dramma delle “foibe”, si sviluppò in un altro contesto geografico e fu portato avanti nel quadro di un progetto politico ben preciso.

Nell'autunno del 1943 l'insurrezione dei contadini croati aveva assunto le forme tipiche di una “sanguinosa jacquerie”, priva di un progetto politico preciso, per lo più una reazione spontanea e immediata contro i possidenti italiani ed i rappresentanti di uno stato che era divenuto indistinguibile dal regime fascista; nella primavera del 1945, invece, “la repressione, più che giudiziaria, fu politica” – sottolinea Raoul Pupo – “una sorta di “epurazione preventiva” diretta ad eliminare tutti gli oppositori, anche solo potenziali, al progetto del nuovo potere; un progetto che era al tempo stesso nazionale e politico, dal momento che consisteva nell'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia comunista”.

Le corresponsabilità dell'esercito di Tito, al di là del coinvolgimento più o meno diretto delle truppe nei diversi territori, non tardarono a preoccupare gli angloamericani, che in un primo momento avevano cercato di evitare ogni motivo di contrasto con gli alleati sovietici e jugoslavi.

Un segno netto di cambiamento di questa linea di condotta si ebbe il 12 maggio, quando Truman, da poco succeduto a Roosevelt alla carica di presidente degli USA, denunciò il grave pericolo rappresentato dall'espansionismo di Tito in una lettera inviata a Churchill: “Se i suoi metodi daranno buoni risultati nella Venezia Giulia, pare che Tito abbia già pronte rivendicazioni identiche sull'Austria meridionale, Carinzia e Stiria e potrebbe progettare qualcosa di analogo anche per parte dell'Ungheria e della Grecia […]. Si tratta fondamentalmente di decidere se i nostri due paesi intendono permettere ai nostri alleati di intraprendere un'incontrollata espansione e di perseguire tattiche che ricordano troppo da vicino quella di Hitler nel Giappone”.

A questo primo irrigidimento degli USA seguì un'analoga svolta nella politica inglese. Dopo il fallimento della missione a Belgrado del generale William Morgan, capo di stato maggiore di Alexander, il quadro si fece ancor più teso.

Quando Tito, dopo aver dichiarato che nella Venezia Giulia gli jugoslavi non avevano bisogno di usare la forza per prendersi ciò che era già loro di “diritto”, aggiunse minaccioso che gli jugoslavi non avevano dimenticato i loro fratelli della Carinzia che tremavano ancora “sotto gli agenti della Gestapo, nascosti sotto altre uniformi”, la situazione si fece incandescente.

Ma apparve anche evidente, in quella fine di maggio, che Stalin non aveva alcuna intenzione di mettere in crisi i rapporti con le potenze occidentali appoggiando la politica “avventuristica” del suo scomodo alleato.

A lungo Tito rimase al telefono – racconta Joze Vilfan, allora capo della sua segreteria – in attesa del sospirato sostegno del “compagno Stalin”; gli giunse invece un secco ordine che non lasciava dubbi: “Entro ventiquattr'ore dovete ritirare le truppe da Trieste, perché non voglio essere implicato in una terza guerra mondiale per la questione triestina”.

Oramai del tutto isolato, Tito dovette accettare subito ciò che poco prima aveva negato al generale Morgan.

Il 9 giugno, a Belgrado, venne così accolta la proposta di una linea di demarcazione provvisoria che doveva dividere la Venezia Giulia in due settori: la parte orientale – la cosiddetta Zona B – sarebbe rimasta sotto il controllo jugoslavo e sarebbe stata amministrata come unità territoriale separata; la parte rimanente – la Zona A –, con annessa l'enclave di Pola, sarebbe passata sotto amministrazione alleata.

Tre giorni dopo le truppe jugoslave abbandonarono la città ed il giorno successivo venne costituito il Governo Militare Alleato.

Le decisioni prese a Belgrado furono formalmente considerate come accordi esclusivamente “amministrativi”, come una soluzione temporanea in attesa dei trattati di pace, e come tali vennero ampiamente propagandate da una parte e dall'altra; in realtà i termini in cui la questione era stata affrontata nella capitale jugoslava condizionarono tutto lo scontro successivo sulla “questione Trieste”.

La nuova amministrazione smantellò in breve tempo gli organi di governo locale decisi dalle autorità jugoslave durante i “quaranta giorni” e rimise in vigore gran parte del vecchio apparato amministrativo italiano.

In agosto le autorità militari del 13° Corpo (“Civil Affairs”) definirono la struttura del GMA, che venne concepito secondo il modello del “Governo diretto” (“Direct Rule”) previsto anche per la Germania e l'Austria: il GMA divenne così l'unica autorità di governo della Zona A: “A tale decisione” – scrive Valdevit – “si arriva anche perché il fronte antifascista a Trieste è già da tempo spaccato e ciò non consente la formazione di governi locali di larga unità antifascista.

In particolare il partito comunista si contrappone alle autorità di occupazione alleate, con le quali ingaggia un confronto che domina lo scenario politico triestino per tutto il 1946 e il 1947”.

In questo quadro radicalmente nuovo si ridisegnarono i rapporti tra le forze politiche cittadine e venne ricostituito il CLN. Apparve subito chiaro che lo scontro politico era radicalmente polarizzato in due schieramenti opposti: da una parte il fronte “italiano”, che abbracciava liberali, socialisti, democristiani e repubblicani, dall'altra i comunisti, che a metà agosto dettero vita, in opposizione alla linea del PCI, al Partito comunista della Regione Giulia. Aderirono al nuovo partito i comunisti italiani, sloveni e croati che si dichiararono ufficialmente a favore dell'annessione di Trieste alla futura Jugoslavia “popolare”, a “Trieste-VII Repubblica”!

Una spaccatura così profonda ebbe immediate conseguenze anche in campo sindacale: in contrasto con i Sindacati unici, che erano controllati dai comunisti, i partiti “italiani” decisero la fondazione di un sindacato alternativo, di ispirazione interclassista, che si rivolse soprattutto ai ceti impiegatizi, al pubblico impiego e al settore dei servizi.

Entro l'anno la nuova organizzazione sindacale, che a novembre prese il nome di Camera confederale del Lavoro (CCdL), cominciò a trovare i suoi spazi anche all'interno delle fabbriche, dando vita alle prime “Commissioni interne”. Da allora, per anni, gli scontri tra le due organizzazioni sindacali sarebbero scoppiati quasi sempre sulla scia dello scontro politico che divideva le forze cittadine e nazionali.

Le tensioni che attraversavano il tessuto sociale e che trovavano una conferma nella desolante situazione economica della città vennero ancor più appesantite dall'eco che il dramma delle foibe, ripreso ed amplificato dalla stampa locale, trovava quotidianamente in città.

Nella seconda parte dell'anno la Vita Nuova, periodico della diocesi, agitò costantemente questo tema, arrivando ad identificare nazismo e comunismo; anche la Voce Libera, organo del CLN, riprese spesso i luoghi comuni e gli accenti caratteristici del più tradizionale antislavismo, quali la differenza di civiltà tra la città e il “contado” e l'idea che nella Venezia Giulia “l'italianità è un elemento congenito delle famiglie e degli individui – chi scrive è tutt'altro che razzista – ma vorrebbe dire quasi qualcosa di biologico”.

Il risvolto di tutte queste lacerazioni fu la violenza: da una parte la violenza che avvelenava i rapporti tra italiani e sloveni, dall'altra la violenza organizzata, diretta da centrali situate al di fuori della Zona A.

Per un certo periodo Trieste divenne anche il punto di incontro momentaneo di gruppi sbandati di ex soldati, di collaborazionisti, di ustascia, cetnici serbi e di domobranci sloveni. Nel centro cittadino comparvero scritte firmate “ZAP” (“Zivio Ante Pavelic”).

Si organizzarono i primi gruppi di neofascisti e divennero sempre più frequenti gli attacchi ad associazioni partigiane: sorsero in città vari circoli di estrema destra, quali l'“Oberdan”, il “Cavana – Cittavecchia”, il “Felluga”, ai quali il governo italiano fornì per lungo tempo sostanziosi finanziamenti.

Gran parte dei dirigenti e dei membri dei circoli “Brunner” e “Oberdan” erano attivisti del MSI o del Partito monarchico o facevano parte della organizzazione missina “Fiamma”. A questi gruppi si aggiunsero le squadre di Cavana, che per lungo tempo si misero in mostra per l'uso sistematico della violenza e per il loro oltranzismo neofascista.

Verso la fine dell'anno il governo italiano cercò di fare alcuni passi diplomatici per verificare la possibilità di accordi politici con la Jugoslavia sul problema dei confini, ma senza successo.

Lo stesso primo ministro Ferruccio Parri, parlando con il generale Harding, ammise che nessuno dei tentativi di riconciliazione fatti dal suo governo aveva ottenuto risposta dalla Jugoslavia.

Lungo il 1946, mentre nelle capitali dei “Quattro Grandi” si stava svolgendo il lavoro diplomatico per la definizione dei trattati di pace, emerse in modo sempre più netto che il peso della Jugoslavia e soprattutto quello dell'Italia era ben poca cosa rispetto agli interessi dei vincitori. Per di più crollò ogni illusione italiana di poter incidere in qualche misura sull'amministrazione alleata a Trieste: inglesi e americani erano fermamente convinti che solo l'assoluto controllo militare e politico sulla città poteva evitare l'assorbimento di Trieste da parte jugoslava.

Il mancato accordo sui futuri confini risultò drammaticamente evidente quando, tra marzo ed aprile, una commissione mista composta dalle delegazioni inglese, francese, sovietica e americana fece visita alla città. Furono giorni pieni di scontri e di manifestazioni contrapposte in cui la città apparve agli stranieri ancora una volta irrimediabilmente divisa.

Alla fine non si raggiunse alcun risultato. Fu, quella, l'ultima volta che le quattro delegazioni si riunivano assieme: dopo, per lungo tempo, la guerra fredda avrebbe vanificato ogni tentativo di intesa a livello internazionale.

Un rapporto della polizia al ministero degli Interni mise in luce il clima di paura che paralizzava allora la città: “Nella Zona A si acuisce sempre più il malessere, si paventa ancor più l'insidia slava, si comincia da qualche gruppo a mettere al sicuro in territorio nazionale non contestato capitali e valori, non perché si dubiti del ritorno di Trieste all'Italia, ma per il temuto assalto, sia pure di breve durata, delle orde slave interne ed esterne a scopo di rapina e di sterminio.

Continuano ad affluire notizie sugli apprestamenti militari jugoslavi lungo la linea Morgan, nell'immediato retroterra carsico, sulla costa istriana e con maggior solidità ed arte (si parla di gettate di cemento) alla frontiera italo-jugoslava”.

L'intransigenza del governo di Belgrado sulla questione nazionale e le notizie preoccupanti che arrivavano da Parigi, dove si stavano svolgendo a ritmi sempre più intensi i lavori della Conferenza della Pace, non contribuirono certamente a calmare gli animi in città.

Si cominciò a parlare di un “Territorio Libero di Trieste” che avrebbe sancito la internazionalizzazione della città; si alimentò il complesso della “città assediata” e si cominciò a gridare al tradimento: “Erano i giorni più amari di Trieste e della Venezia Giulia” – ricorda Giani Stuparich – “quando i potenti della terra giocavano col nostro piccolo destino. Speranze e delusioni s'alternavano, si passava dall'esasperazione all'abbattimento e dall'abbattimento alla rivolta. I cittadini camminavano per le strade smarriti, avviliti, guatando da ogni parte se non fosse per sopraggiungere qualche speranza che li scotesse o li annientasse per sempre.

I fuggiaschi di Pola e dell'Istria sbarcavano come storditi e s'afflosciavano sulle rive accanto alle loro masserizie. E di giorno e di notte il dolore che veniva di là metteva acido e fuoco sulle nostre piaghe.

Che cosa volevano fare di noi, perché ci avevano staccato dalla terra a cui appartenevamo, perché volevano costringerci ad essere altri da noi stessi? Le notizie, le proposte, i consessi, le commissioni formavano ridda sopra di noi, che non chiedevamo altro se non d'esser lasciati a condividere in pace la sorte della nostra madre comune, dell'Italia”.

Parte seconda: 1946 – 1948

Le paure e le disillusioni che agitavano tanta parte della città diventarono subito terreno fertile di lotta politica e la questione degli esuli venne sempre più spesso agitata dalla DC quale esempio degli orrori e della “barbarie” del comunismo.

La polemica della Prora, giornale della Democrazia cristiana, si allargò anche alle forze di sinistra che a Roma facevano parte del governo o che comunque ricoprivano cariche importanti: erano loro che tradivano gli interessi del popolo istriano “sabotando l'opera amorosa di chi, senza nulla chiedere, si appresta ad accogliere cristianamente i fratelli doloranti”.

Queste polemiche, d'altra parte, si inserivano in pieno in quella radicalizzazione dello scontro politico che a maggio avrebbe portato in Italia alla formazione di un nuovo governo De Gasperi, con la rottura del fronte antifascista – che a Trieste si era verificata già due anni prima – e la espulsione dei comunisti e dei socialisti dalla maggioranza.

Il 10 febbraio 1947 il Trattato di pace venne solennemente firmato a Parigi: le grandi potenze decisero che sarebbe entrato in vigore a metà settembre.

L'accordo venne accolto in Italia e in Jugoslavia da un rifiuto quasi corale, sia tra i politici che nell'opinione pubblica. Anche i governi, quello di Roma e quello di Belgrado, ebbero ogni interesse ad alzare la voce e a manifestare uno sdegnato rifiuto, imputando alla “protervia” delle grandi potenze il fatto di non aver potuto garantire le “legittime” rivendicazioni nazionali.

Alla fine, in realtà, era prevalso il criterio della “linea etnica” ed era rimasto in secondo piano ogni discorso sui confini strategici o sulle esigenze di natura economica: mentre gran parte della Zona B doveva passare alla Jugoslavia, la Zona A veniva divisa in tre parti.

Il territorio ad oriente della linea francese doveva passare alla Jugoslavia; il territorio ad occidente di questa linea doveva spettare in parte all'Italia, in parte alla Zona angloamericana del Territorio Libero di Trieste.

In particolare la perdita dell'Istria fu dolorosissima e venne accolta con sgomento da gran parte della cittadinanza. Da tempo le ipotesi più pessimiste erano sulle bocca di tutti e già da mesi, in previsione di un esito negativo delle trattative internazionali, era cominciato l'esodo da Pola. Ora, per molti, tutto apparve perduto per sempre.

Trieste fu travolta da polemiche durissime e da improvvisi scoppi di violenza: alla fine prevalse in molti la sensazione irrazionale che il mondo ce l'avesse con la città e che le grandi potenze avessero ordito un “complotto” contro i suoi legittimi interessi.

Ne dà una testimonianza diretta il rapporto mensile (Monthly Report) che le autorità del GMA inviarono a primavera ai loro rispettivi governi: “Da un punto di vista psicologico l'italiano medio di Trieste è vissuto per quasi due anni in un vuoto ed è oggi persona del tutto scoraggiata e delusa senza molte speranze soggettive in un futuro migliore. Di conseguenza le sue reazioni sono molto spesso immotivatamente violente e la sua percezione degli avvenimenti su scala internazionale pressoché nulla”.

Talvolta le proteste caddero infatti nel patetico, come quando La Voce Libera, pochi giorni prima dell'entrata in vigore del Trattato, si abbandonò a reboanti minacce nei confronti dell'ONU: “Tutto si paga: Trieste, simbolo della tragedia italiana, rimane una ferita boccheggiante. Oggi paghiamo noi col nostro dolore, con il nostro lutto: una mediocre saggezza avrebbe evitato tanto male. Domani pagherà chi si è ostinatamente rifiutato di ascoltarci. Trieste ha scardinato l'impero austriaco. Era più saldo dell'ONU”.

L'internazionalizzazione della città decisa con la costituzione del TLT influenzò immediatamente lo scontro tra le forze politiche triestine.

In primo luogo contribuì ad esasperare le polemiche interne allo schieramento comunista, sia nel nuovo partito appena costituito, il “Partito comunista del Territorio Libero di Trieste”, sia nel movimento sindacale. Durante i lavori del Comitato esecutivo del PCTLT scoppiò apertamente la polemica tra gli iscritti italiani e la maggioranza controllata da Rudi Ursic e da Branko Babic: la dirigenza venne attaccata per il suo autoritarismo e per la mancanza di un'autentica ispirazione “internazionalista”. Nel linguaggio comunista del tempo veniva indicato così l'appoggio indiscriminato che la maggioranza aveva dato alla politica annessionistica di Tito fino a cadere in un nuovo nazionalismo.

Dietro a questo attacco al “settarismo” di Babic – per il quale “tutti coloro che non erano con noi erano fascisti ed agenti dell'imperialismo” – c'era Vittorio Vidali, che Togliatti aveva inviato a Trieste per occuparsi della situazione locale: erano ben note le perplessità, se non la contrarietà, che gli organi direttivi del Partito comunista italiano avevano mostrato nei confronti dei comunisti triestini.

La maggioranza del partito rimase in mano a Babic e a Ursic, ma la loro posizione era destinata a diventare sempre più insostenibile, anche perché la continua strumentalizzazione a fini politici del movimento sindacale non poteva che indebolire tra i lavoratori la posizione dell'organizzazione controllata dai comunisti.

Per di più era ormai chiaro che le autorità angloamericane non avrebbero mai permesso che la città venisse annessa alla vicina Jugoslavia: quando l'anno dopo si verificò la frattura tra Stalin e Tito l'unità del partito finì immediatamente e si formarono due partiti comunisti violentemente contrapposti.

I comunisti tentarono anche di adattarsi alla nuova situazione determinata dalla istituzione del TLT, mandando avanti un'organizzazione da loro controllata da anni e cioè l'Unità antifascista italo-slovena (UAIS): l'UAIS si offrì di collaborare con le autorità del GMA, ma – come ricorda il Novak – “Il GMA respinse questa proposta che sarebbe servita ai comunisti per riottenere posizioni ormai perdute.

Il secondo passo dell'UAIS-SIAU fu di chiedere elezioni amministrative. Il GMA si rifiutò di nuovo, temendo che i comunisti fossero ancora in grado di vincere. L'UAIS-SIAU propose allora al Partito d'azione di formare un blocco di sinistra per proteggere gli interessi della classe lavoratrice. Anche questa volta l'esito fu negativo”.

Nello schieramento “italiano” le delusioni seguite alla firma del Trattato rafforzarono ancor più le spinte radicali e nazionalistiche e l'accusa alle forze politiche “nazionali” di aver ceduto alle pressioni degli alleati. Per di più l'estromissione dei comunisti dal governo di Roma contribuì non poco ad alimentare polemiche e sospetti mai sopiti.

Le forze del CLN, che si erano sempre battute per il ricongiungimento di Trieste all'Italia, si divisero e i diversi partiti che ne avevano fatto parte cominciarono ad operare solo attraverso le rispettive organizzazioni politiche autonome.

Così il Novak descrive il quadro politico triestino in quei mesi che divisero la firma del Trattato di pace dalla sua entrata in vigore: “Tra il febbraio e il settembre 1947 incominciarono ad emergere quattro partiti italiani. Si trattava del Partito democristiano, del Partito liberale italiano, di quello repubblicano e del Partito socialista della Venezia Giulia.

I primi due furono organizzati secondo i principi politici degli omonimi partiti italiani. Il Partito repubblicano derivava dall'unione dell'ex Partito d'azione (un Partito liberale con un programma sociale) e dei repubblicani.

Il Partito socialista della Venezia Giulia (PSVG) era costituito da due gruppi socialisti. I riformisti o socialisti di destra avevano la maggioranza. Essi erano chiamati anche saragattiani dal nome del loro capo politico Giuseppe Saragat, che operava in Italia ed era noto per il suo rifiuto di unirsi al blocco delle sinistre formato dai socialisti di sinistra o nenniani, che a Trieste non si erano alleati con il Partito comunista, come invece era avvenuto in Italia.

Siccome i comunisti locali (PCVG) sostenevano una politica estera filojugoslava, i socialisti di sinistra si unirono con i loro rivali di destra formando il Partito socialista della Venezia Giulia.

A Trieste quindi, per i socialisti di sinistra le considerazioni nazionalistiche erano più importanti dell'opposizione ideologica ai socialisti di destra.

Esisteva anche una corrente di destra neofascista, ma per l'opposizione del GMA non poté legalmente costituire una propria organizzazione politica. Ciononostante, i neofascisti parteciparono attivamente a tutte le manifestazioni organizzate per difendere il carattere italiano di Trieste, Pola e Gorizia.

Gli avvenimenti successivi al febbraio del 1947 indussero gli sloveni anticomunisti ad una vita politica più attiva. Nel marzo del 1947, il GMA decise di far cessare la pubblicazione del suo quotidiano sloveno Glas zaveznikov.

Gli sloveni non comunisti dovettero pertanto organizzare il proprio partito e pubblicare un nuovo giornale politico. Verso la fine di marzo il gruppo cattolico di Gorizia e i liberali di Trieste decisero di fondare un nuovo partito politico, la Slovenska demokratska zveza (Unione democratica slovena), con a capo il dottor Josip Agneletto e il dottore Franc Vesel”.

Nei giorni immediatamente precedenti l'entrata in vigore del Trattato di pace si verificarono in città numerosi atti di violenza, soprattutto ad opera di gruppi di estrema destra, che volevano protestare contro le clausole del Trattato e il “sacrificio” di territori italiani dovuto al “tradimento” degli alleati e del governo di Roma.

Il giorno 13 squadre di “nazionalisti” imposero agli esercenti del centro cittadino di chiudere i loro negozi dopo aver esposto manifesti listati a lutto con la scritta: “Chiuso per lutto nazionale”. Tentativi di assalto contro le sedi dei partiti si verificarono in Corso Italia, dove aveva sede il Fronte indipendentista, e in via del Teatro, dove una decina di neofascisti malmenarono il prof. Francesco Collotti, presidente del Partito liberale e il giovane figlio Enzo.

Due giorni dopo elementi neofascisti spararono numerosi colpi di mitra contro i partecipanti ad una festa organizzata dal Circolo di cultura popolare del vicolo dell'Ospedale Militare e provocarono la morte di una bambina di 11 anni. Vi furono anche assalti alla sede del Fronte dell'indipendenza e un grave fatto di sangue nelle vicinanze del Circolo “Tomasi”, dove venne ferito a morte l'operaio Carlo Castagna.

Sotto la spinta delle delusioni e dei rancori, la tensione in città durò ancora a lungo.

Nel frattempo, però, si era venuto sempre più modificando l'atteggiamento della diplomazia angloamericana nei confronti del futuro del TLT, al punto da rendere improponibili certe soluzioni che poco tempo prima erano sembrate opportune e come tali erano state scelte ed imposte.

Già da tempo i governi di Londra e di Washington avevano mostrato preoccupazione per il baldanzoso espansionismo jugoslavo che si riteneva fosse appoggiato da quello, ben più temibile, dell'URSS di Stalin, ma solo ora il timore per la “balcanizzazione” di Trieste portò ad una inversione di rotta: “In base alle concezioni strategiche americane” – scrive Valdevit – “tale eventualità avrebbe comportato una serie di reazioni a catena che avrebbero coinvolto l'intera area europea occidentale. Da questa fase Trieste diventò un ganglio fondamentale nella politica di contenimento, quella politica che caratterizzò gli anni dell'amministrazione Truman e che fu diretta ad arrestare l'espansionismo che essa considerava il movente principale della politica estera sovietica”.

Come aveva dichiarato l'ambasciatore americano a Belgrado “Il TLT ha un'importanza simbolica come pure intrinseca e Trieste rappresenta oggi la continuità dei nostri interessi verso l'Est europeo”!

Le preoccupazioni delle autorità del GMA erano causate anche dalla grave situazione economica in cui versava la città: i disoccupati erano più di 20.000 su una forza lavoro di circa 100.000 unità, e la stessa presenza dei grandi gruppi assicurativi, vanto della città da più di un secolo, cominciava ad essere minacciata, come testimoniava il trasferimento della sede legale delle Assicurazioni Generali e della Riunione Adriatica di Sicurtà rispettivamente a Roma e a Milano.

Quello di Trieste – scrisse allora preoccupato un funzionario del GMA – “era un tenore di vita assistito”.

Per Londra e Washington esisteva infatti un nesso strettissimo tra la crisi economica della città e il pericolo di una sua caduta in mano agli elementi “slavocomunisti” e questo spiega l'imposizione all'Italia di un coinvolgimento diretto nel sostentamento finanziario ed economico della Zona A.

Per di più le autorità angloamericane espressero pesanti lamentele nei confronti del mondo industriale e commerciale triestino, che non mostrava alcuna intenzione di operare in città e di correre rischi: “Gli industriali e gli uomini d'affari della vecchia generazione stanno già dando prova di voler trasferire i loro interessi in Italia. Sta aumentando la disoccupazione che è già ad un livello allarmante in relazione alla popolazione in età di lavoro.

Dove sta portando tutto ciò? Emigreranno i lavoratori in età di lavoro e sarà spianata la strada per una sistematica infiltrazione jugoslava?”.

Nei primi mesi del 1948 queste preoccupazioni angloamericane erano ormai indissolubilmente legate ai rischi che stavano correndo i delicati equilibri tra i due blocchi.

Nel cuore dell'Europa era sempre aperto il problema dell'Austria, che era ancora occupata dalle truppe delle potenze vincitrici, e la “cortina di ferro” allargava sempre più il fossato tra gli alleati di un tempo. Per di più anche la Grecia e la Cecoslovacchia erano scosse da profonde crisi politiche e l'Unione Sovietica appariva in grado di estendere il suo controllo su nuovi paesi “satelliti” senza alcuna difficoltà. A marzo i delegati sovietici si ritirarono dalla Commissione di controllo alleata sulla Germania e imposero rigidi controlli sui traffici con Berlino.

In questo scenario Trieste, che fin dall'estate del 1947 era stata considerata dagli americani come un anello fondamentale della loro presenza in Europa, risultò ancor più una posizione irrinunciabile: “In base alla “teoria del dòmino” tenere saldamente la Zona A del TLT” – scrive Valdevit – “significava dimostrare che non si sarebbe permessa la caduta di altre, e più importanti, pedine nel teatro europeo e mediterraneo. Così la linea Morgan (che divideva le due zone del TLT) viene definita “inviolabile”, e la presenza americana a Trieste, che si manifesta attraverso il GMA, viene considerata come un'atipica “forza di resistenza” alle “tattiche di infiltrazione comunista”; si tratta in ogni caso di barriera assai più politico-psicologica che militare in senso stretto.

In definitiva tutto ciò manifesta la determinazione di controllare direttamente il “dòmino” Trieste”.

La strategia del “contenimento” radicalizzò lo scontro politico all'interno dei vari paesi e indusse gli alleati angloamericani ad appoggiare con ogni mezzo la coalizione “occidentale” che dava le maggiori garanzie di successo nello scontro con i comunisti.

A tal fine i governi americano, francese e inglese consegnarono nelle mani di De Gasperi una dichiarazione destinata a rafforzare la DC e la maggioranza centrista che sosteneva il governo italiano in vista delle elezioni politiche fissate per il 18 aprile.

La “Nota tripartita” affossava definitivamente il progetto di dar vita al TLT e “raccomandava” che il territorio fosse posto nuovamente sotto la sovranità italiana: a tal fine i tre governi si impegnavano ad appoggiare la proposta presso il Consiglio di sicurezza dell'ONU, nella speranza che si potesse raggiungere un “comune accordo”.

La posta in gioco era davvero molto importante per gli equilibri internazionali: non a caso il 14 febbraio una nota sovietica aveva auspicato la restituzione all'Italia di parte delle sue colonie. L'obiettivo era chiaro: in prossimità della scadenza elettorale si voleva favorire agli occhi dell'opinione pubblica il PCI, mettendo anche in difficoltà la diplomazia inglese, che si era sempre dichiarata ostile nei confronti di iniziative di questo tipo.


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