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La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.

GIANNI BARTOLI

Come amò molte volte ricordare, nella sua vita pubblica come in quella privata, Gianni Bartoli era nato in Istria, a Rovigno, nella piazza veneta di San Damiano.

Proveniva da una famiglia dalle forti tradizioni patriottiche e religiose: un suo zio, Pier Paolo, era parroco a Dignano d'Istria. Padre e madre, Antonia Bosich di Gallignana, erano di sentimenti irredentisti ed avevano educato i sei figli all'amore dell'Italia.

Così Bartoli ricordò la sua giovinezza, “I tempi felici delle sfrenate corse nella pineta di Montauro […] le lunghe ed estenuanti nuotate competitive nell'oasi di Val di Lone […] le gare combattute fra canotti, guzzi, caicci e passere fra il porto e le isole di Sant'Andrea e Santa Caterina, splendide isole in parte per noi inaccessibili perché abitate da certi nobili dai nomi difficili: il barone de Hutterot e il principe galiziano Millewsy, che le avevano trasformate in dorate residenze”.

Nel 1910 il padre morì ed egli - aveva allora 10 anni - fu mandato a Trieste, da uno zio, per concludere gli studi. Si iscrisse alla scuole tecniche, alla “Realschule”, in Acquedotto, - dove dopo il 1918 avrebbe avuto sede il ginnasio-liceo “F. Petrarca” - e manifestò subito desiderio di apprendere e di continuare gli studi.

A vent'anni si recò a Torino per frequentare il Politecnico e qui entrò in contatto con alcune personalità del mondo cattolico che avrebbero avuto su di lui una duratura influenza: Pier Giorgio Frassati, - di lui, beatificato dopo la morte, Bartoli portò sempre con sé una piccola foto - Luigi Sturzo e Giovanni Battista Montini.

Conseguito il diploma di laurea in ingegneria elettromeccanica nel 1926, trovò un impiego a Pola, alla Telve. Qui, oltre ad occuparsi di cavi telefonici e della stagione musicale all'Arena, si prodigò con fervore nell'attività assistenziale della San Vincenzo de Paoli lavorando fianco a fianco con Antonio Santin, allora parroco del Duomo.

A Pola rimase fino al 1940, quando, con la moglie e 2 figli, ritornò a Trieste, dove era stato nominato capoagenzia alla sede delle Telve, e dove ben presto allacciò i contatti con il mondo cattolico, riprendendo quell'impegno che già anni prima lo aveva visto a Roma, durante il viaggio di nozze, entrare in contatto con Guido Gonnella ed altri esponenti “popolari”.

Fu a Padova, dove era stato trasferito per un breve periodo dopo l'8 settembre del 1943, che Bartoli entrò in contatto con la resistenza, a fianco di uomini come Giuseppe Bettiol e padre Messori, che avevano dato vita al Comitato di liberazione nazionale: un impegno civile e morale che poi lo avrebbe visto, dopo il ritorno a Trieste, rappresentante della DC nel CLN clandestino, collaborare con Marcello Spaccini, con don Marzari, Paolo Reti, Doro de Rinaldini e il vecchio amico e concittadino Santin, divenuto ora vescovo di Trieste.

Sono gli uomini della F.U.C.I. (Federazione Cattolica Universitari Italiani), della Azione Cattolica, gli uomini destinati a rappresentare dopo il 1945 il gruppo dirigente della Democrazia Cristiana. Bartoli divenne segretario del partito e ricoprì tale carica fino al 1949: “Palazzo Vivante è la sua seconda casa” – scrive Corrado Belci, suo compagno di partito e parlamentare della DC negli Anni Sessanta e Settanta - “e il nuovo punto di riferimento di tutti gli esponenti che dall’impegno di Azione Cattolica sono passati alla politica, un impegno civile che prolunga la Resistenza per ricongiungere la città all’Italia. E su questo obiettivo, naturalmente ai cattolici si uniscono anche molti altri cittadini, che non siano di famiglia già mazziniana, o socialista, o liberalmassone”.

In Italia sono gli anni dei governi De Gasperi, del “centrismo”, e in città Bartoli ne rappresenta la linea con forza e coerenza: è, per usare l’espressione incisiva di Belci, uno degli “uomini di De Gasperi a Trieste”.

Intensa fu anche la sua attività in campo giornalistico: diresse per un certo periodo il settimanale del partito La Prora e poi, nel 1948, il quotidiano della sera Ultimissime.

In tutte queste attività mirò sempre a legare strettamente la battaglia per l’appartenenza di Trieste all’Italia e quella per creare un partito che nel Territorio Libero rispecchiasse le scelte politiche e ideali della Democrazia Cristiana.

Nel 1949, dopo le elezioni amministrative, Bartoli divenne quasi naturalmente il primo sindaco di Trieste, espressione di una scelta popolare che aveva indubbiamente premiato il suo partito: fino a quel momento il “Presidente del Comune” – dopo il 1948 il “Sindaco” - era stata nominato dalle autorità del GMA.

Comincia così, per la città, l’epoca delle “giunte Bartoli” che si sarebbe conclusa otto anni dopo, nel 1957.

Nei primi anni Cinquanta, Bartoli non si scostò mai dalla sua ispirazione “centrista” e dal suo intransigente anticomunismo: anche nei momenti più drammatici, quali le giornate sanguinose del marzo 1953, egli mostrò una totale sfiducia nel partito di Vidali e dei socialisti “nenniani”, che in quegli anni erano, a Trieste come a Roma, vicini al partito di Togliatti.

La stessa intransigenza mostrò, non diversamente dagli altri partiti dell’ “arco italiano”, nel rivendicare la piena incondizionata applicazione della “Nota tripartita” del 1948, quasi questa fosse stata un impegno solenne degli alleati e non una “proposta” degli angloamericani all’altro loro partner, l’Unione Sovietica. Una scelta politica che, a posteriori, non parve più così ovvia e indiscutibile, so lo stesso Corrado Belci, amico di Bartoli e leader di quei “trentenni” che avrebbe preso il controllo del partito dopo la crisi del “centrismo”, si pose questa domanda nella biografia dedicata al “sindaco di Trieste”: “Era stato un errore quello di restare arroccati nella difesa della nota tripartita, oppure no? Interrogativo storicamente irrisolto, specie dopo lo sganciamento di Tito dal blocco sovietico”.

Fu questa insistenza che lo portò anche ad abbracciare la “tesi Cammarata” e ad accentuare gli elementi di frizione con le autorità del GMA. Ancora una volta le scelte di Bartoli erano in linea con quelle di De Gasperi e con l’irrigidimento del governo italiano sulla “questione di Trieste” in seguito alla crisi degli equilibri interni e al rafforzamento dell’opposizione di destra.

Quando però, nell’estate-autunno del 1954, le pressioni degli alleati e la mutata situazione internazionale seguita alla morte di Stalin misero il governo italiano di fronte ad un sostanziale aut-aut, i margini di manovra furono quasi inesistenti e si arrivò a quel “Memorandum” che Bartoli e le altre forze dell’ “Arco italiano” dovettero subire: la “perdita” dell’Istria era stato il prezzo dell’accordo e la sensazione di una sconfitta dolorosa pesò non poco sull’entusiasmo suscitato dalla “seconda redenzione”.

L’entrata delle truppe italiane a Trieste e la visita del presidente Luigi Einaudi rappresentarono il punto più alto dell’esperienza umana e politica di Bartoli, il coronamento delle battaglie sue e dello schieramento da lui guidato.

Gli anni del dopo-memorandum, fino alla crisi del 1957 e la conclusione delle “giunte Bartoli”, furono anni inaspettatamente difficili: le parole di Scelba, che a Trieste aveva solennemente promesso di fare della città un “un centro di avanguardia dell’economia italiana” sempre più suonavano come un vuoto tributo retorico alla solennità del momento.

Attese miracolistiche, recriminazioni e nostalgie degli “indipendentisti”, delusioni e vecchie polemiche autonomistiche creavano una miscela difficile da gestire per quelle forze che avevano amministrato la città dal 1949. Per di più anche lo scenario internazionale era mutato e man mano che i rigori della guerra fredda si stavano stemperando certe irrigidimenti e certe preclusioni diventavano sempre più anacronistici.

I rapporti tra i liberali e i socialdemocratici peggiorarono sensibilmente e all’interno della DC nuovi schieramenti misero in crisi la leadership di Bartoli e degli “uomini di De Gasperi”: la sinistra di “Iniziativa Democratica”, che si richiamava in sede nazionale alle posizioni di Amintore Fanfani, era ormai pronta ad assumere il controllo del partito ed a girare pagina.

Tra la primavera e l’estate del 1957 la crisi del “centrismo” a Trieste diventa irreversibile e agli inizi di agosto Bartoli è costretto a rassegnare le dimissioni: “Un’epoca si è veramente conclusa – ricorda Belci – e la DC guidata dalla sua corrente di sinistra ritiene di sottolinearlo pubblicamente, di prenderne atto e di passare al Comune di Trieste dall’uomo dell’epopea all’uomo dell’amministrazione, come dire da Gianni Bartoli a Mario Franzil, suo vecchio amico ed assessore al bilancio”.

Bartoli, come il vescovo Santin, suo consigliere “spirituale”, non si riconosce più nel “nuovo corso”, in quella cauta apertura a sinistra che cerca di favorire lo sganciamento dei socialisti dal PCI e di creare le basi di un nuovo schieramento. Bartoli non condivide neanche la scelta della “nuova” DC di avviare dei rapporti con la minoranza slovena: “come la maggior parte degli istriani e dei triestini della sua generazione – continua Belci – vede ancora presenti possibili insidie, il rischio di una penetrazione sottilmente programmata da parte slava, l’uso strumentale di una minoranza come testa di ponte della Jugoslavia entro il territorio italiano”.

La sua attività “pubblica”, però, continua: già nel 1958 è eletto presidente del Consorzio dell’Aeroporto giuliano di Ronchi, carica che coprirà per 7 anni; nel 1965 è nominato dall’IRI presidente del Lloyd triestino, dove si scontrerà sia con la natura sostanzialmente “onorifica” del suo incarico, che gli dà scarsi margini di intervento reale, sia con i piani generali di ristrutturazione dell’IRI, che punta al risanamento finanziario del comparto. Come “presidente triestino” Bartoli cerca di controbattere alle accuse di assistenzialismo che molti ambienti economici italiani rivolgevano agli imprenditoriali locali per le continue richieste di sovvenzioni: già la ricca Austria – scrive ripetutamente in risposta alle accuse – aveva generosamente sostenuto lo sviluppo della città; l’Italia non poteva essere certamente da meno se voleva continuare a servirsi di quell’indispensabile “ponte” di traffici tra mercati tanto lontani e privi di comunicazioni.

Gli inizi della sua presidenza – abbandonerà l’incarico per raggiunti limiti di età nel 1971 – coincidono d’altra parte con quel riacutizzarsi della crisi che fece parlare di Trieste come di un “caso di economia in regresso relativo”; per di più l’apertura del MEC aveva finito col favorire i porti tedeschi, declassando ulteriormente i traffici del porto.

Nel 1966, in risposta a questi gravi motivi di crisi, il governo decise l’attuazione del cosiddetto Piano CIPE, che in molti ambienti triestini venne accolto come un vero attentato agli interessi economici della città. Di nuovo quello che per molti era ancora “l’ex sindaco” Bartoli si trovò al centro di roventi polemiche e di duri attacchi politici: in realtà si era trovato a gestire una situazione nella quale le scelte decisive venivano prese altrove.

Concluso il suo incarico al Lloyd triestino, Bartoli si impegnò ancora in attività pubbliche assumendo la presidenza del Circolo della stampa e la presidenza della Associazione Venezia Giulia e Dalmazia, ma il suo lavoro era condizionato sempre più dalla malattia. Uno dei suoi ultimi atti fu la richiesta a Giovanni Leone di riconoscere la foiba di Basovizza quale monumento nazionale.

Morì il 4 aprile del 1973.


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