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EUGENIO CURIEL
Eugenio Curiel nacque a Trieste nel 1912 da una famiglia agiata: il padre era tecnico di una importante industria, la madre, Lucia Limentani, apparteneva ad una famiglia colta di religione ebraica.
Dopo aver frequentato l’Istituto Tecnico “Leonardo da Vinci” si iscrisse al Liceo scientifico “Oberdan” e nel 1929, con un anno di anticipo, conseguì la maturità.
Già durante gli anni di liceo mostrò un vivo interesse per i problemi politici e sociali, testimoniato da alcuni volantini di cui il padre lo trovò in possesso. Questi interessi lo accompagnarono anche quando scelse di proseguire negli studi scientifici, recandosi dapprima a Firenze, alla facoltà di scienze, e poi a Padova.
A Firenze fu ospite dello zio Ludovico Limentani, un filosofo positivista, ricco di interessi anche in campo letterario, che era stato uno dei firmatari del manifesto crociano degli intellettuali antifascisti. Dalle sue riflessioni sull’etica, sulla antropologia, sulla sociologia, Eugenio trasse una lezione duratura e un appoggio costante e affettuoso anche quando si trovò in difficoltà all’indomani dell’arresto.
Nel 1931 passò al Politecnico di Padova e qui, due anni dopo, si laureò in fisica con una tesi sulle Disintegrazioni nucleari per mezzo della radiazione penetrante.
Dopo una breve infatuazione per gli studi antroposofici, cui forse non furono estranei la lettura di Rudolf Steiner e i rapporti con il circolo antroposofico triestino “Verità e scienza”, ritornò agli studi e alla lotta politica. Nel 1934 divenne assistente di ruolo alla cattedra di meccanica razionale e l’anno successivo professore incaricato di matematica complementare.
Nel 1936 strinse i primi contatti con gli ambienti antifascisti di Parigi e quindi con il Centro interno socialista di Milano. L’anno dopo si recò nuovamente a Parigi per prendere contatto con il Centro estero del PCd’I e qui incontrò Sereni con cui discusse l’impostazione da dare agli articoli e alle rassegne che avrebbe dovuto scrivere per il Bò, l’ organo del Gruppo universitario fascista di Padova.
Da tempo i socialisti e i comunisti italiani avevano deciso di cambiare strategia nella lotta contro il fascismo e di approfittare di tutte le forme di malcontento che derivavano sia dalla guerra di Spagna, sia dall’avanzata del nazionalsocialismo in Europa: era la tattica della “opposizione legale” al regime, che prevedeva la penetrazione all’interno di diverse organizzazioni fasciste, soprattutto studentesche e sindacali. Curiel decise di inserirsi in questi nuovi spazi – giornali, sindacati, associazioni - approfittando delle possibilità aperte da quel “Largo ai giovani” che era l’ultimo slogan propagandistico del regime.
Da Parigi – come ricordò Ruggero Zangrandi – ritornò “con le direttive di diffondere la stampa clandestina comunista, raccogliere fondi per il “soccorso rosso” per i combattenti repubblicani di Spagna, stabilire contatti con gruppi di giovani antifascisti e cattolici, in vista di un fronte unico, e compiere opera di penetrazione nelle organizzazioni fasciste”.
Dopo il ritorno in Italia, abitò alla periferia di Padova assieme ad alcuni amici con cui dette vita ad una cellula comunista: tra tutti gli furono vicini Atto Braun, che lo aveva portato ad abbracciare le idee comuniste, Ettore Lucini, Guido Goldschmied e Renato Mieli.
Col numero del 1° agosto 1937 iniziò la sua collaborazione al Bò. Il suo primo contributo importante fu una rassegna dal titolo “Cosa significa il ‘largo ai giovani’?”, nel quale polemizzò contro la Critica fascista e quei zelanti funzionari del partito che continuavano a “inquinare e monopolizzare” la nuova classe dirigente, che doveva invece operando nei sindacati e nelle associazioni operaie.
In un anno vennero pubblicati una cinquantina di articoli, note, corsivi, che rappresentarono un momento significativo di quel “lungo viaggio attraverso il fascismo” che portò tanti giovani intellettuali ad abbracciare l’antifascismo e a combattere per la libertà.
La sua attività di redattore delle pagine sindacali del giornale - scriveva con lo pseudonimo di Giorgio Intelvi – incontrò in un primo momento i favori di alcune personalità fasciste, tra le quali lo stesso Bottai, ma le cose ben presto cambiarono. Il 20 agosto del 1938 il Bò aprì la campagna contro i docenti ebrei e in terza pagina comparve un’aperta denuncia contro il “professor Eugenio Curiel”, uno degli insegnanti dell’Università di Padova che dovevano essere allontanati per la loro religione: “Contemporaneamente – ricorda Zangrandi – [il giornale] pubblicò nell’altro verso della pagina un ultimo articolo di Curiel, dedicato al problema della “Rappresaglia sindacale””.
Curiel venne allontanato dall’insegnamento, ma la sua attività politica non ne risentì: in questo periodo, anzi, collaborò intensamente con il partito socialista – in una lettera del maggio 1939 dichiarò la sua “fresca, seppure profonda risoluzione di entrare nel partito socialista” – e tenne stretti contatti tra Padova e Trieste con Eugenio Colorni ed altri antifascisti.
I suoi spostamenti furono continui: si recò in Francia, in Svizzera, ed infine, appresa la notizia della morte del padre, giunse a Trieste. Qui venne arrestato nel giugno del 1939 e subito tradotto in carcere a Milano, dove la Commissione per l’ammonizione e per il confino di polizia lo assegnò, senza processo, al confino per un periodo di cinque anni.
Dal gennaio 1940 all’agosto del 1943 Curiel fu relegato a Ventotene, dove incontrò numerosi dirigenti comunisti: in questo ambiente maturò la sua scelta di aderire al partito comunista e di dedicarsi nuovamente con impegno agli studi. In particolare prestò grande attenzione all’ABC del comunismo di Bucharin, un “manuale”, una sorta di Bibbia per i comunisti del tempo, al marxismo e alla storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, con l’occhio attento alle sue terre venete: “Sono scelte significative” - scrive Eugenio Garin - “si tratta, da un lato, di riesaminare una visione “fatalistica” e “meccanica” del divenire storico; dall’altro, si deve mettere a fuoco la genesi della situazione italiana presente, scavando alle radici del fascismo. Nel discutere Bucharin Curiel, ancorché studioso di formazione scientifica, e maturato nel campo delle discipline fisico-matematiche, giungerà, a volte, a critiche non lontane da quelle che Gramsci aveva argomentato nei Quaderni circa un decennio prima (e che certo Curiel non conosceva)”.
La sua polemica contro le interpretazioni positivistiche della filosofia della prassi e della storia umana si fece sempre più netta e consapevole: il marxismo ortodosso imperante al suo tempo finì per apparirgli un vero e proprio “aborto scientista mascherato di qualche lustra dialettica”: le sue basi teoriche “grossolane e decadenti ideologie borghesi”.
Dopo la caduta del fascismo Curiel riprese subito la lotta, impegnandosi nella riorganizzazione del movimento di resistenza e, su incarico della direzione del PCI per l’Alta Italia, alla creazione del Fronte della Gioventù, un’organizzazione unitaria dei movimenti antifascisti giovanili.
Divenuto uno dei dirigenti del Partito comunista, fu tra i principali redattori dell’Unità, allora clandestina, e della rivista La nostra lotta, nella quale delineò un’interpretazione della lotta al nazifascismo come il primo passo sulla via di quella “Democrazia progressiva” che, dopo la guerra, avrebbe portato avanti il processo di modernizzazione e di trasformazione della società italiana verso una sempre più decisa partecipazione popolare al governo della cosa pubblica.
La necessità di costruire questo cammino “progressivo” al di fuori dei tradizionali schematismi dottrinari lo indusse anche ad approfondire la questione del mondo cattolico e della sua presenza così radicata nella società italiana: “L’unione del popolo non si fa senza le masse cattoliche. Quest’anno e mezzo di lotta è stato ricco di fecondi incontri in ogni campo. Sul terreno dell’azione partigiana, come nella fabbrica e nel villaggio, il cattolico si è incontrato forse per la prima volta con un comunista e nella fraternità degli sforzi e delle sofferenze comuni sono cadute incomprensioni e diffidenze, si è dissolto il fardello di menzogne accumulato dal fascismo”.
Scrisse queste righe sull’Unità del 15 febbraio 1945. Nove giorni dopo, a Milano, mentre si recava in via Toti ad un appuntamento con la sorella, fu fermato da un drappello delle brigate nere cui era stato indicato da un delatore, un ex confinato a Ventotene. Nel tentativo di fuggire venne colpito a morte da una raffica di mitra.
Un anno dopo gli venne attribuita la medaglia d’oro alla memoria.
Lasciò numerosi scritti, molti dei quali raccolti nei volumi Classe e generazioni nel secondo risorgimento (1955) e Dall’antifascismo alla democrazia progressiva (1970). Nel 1973 fu pubblicata un’edizione completa dei suoi scritti dal titolo Scritti 1935-1945.
Lasciò anche tra le sue pagine quella che Roberto Battaglia chiamò “la più alta epigrafe che sia stata dettata per i martiri della Resistenza”: “È triste ma fiero il discorso che fanno ai nostri cuori i morti che ci sono vicini. Quella consegna che ogni patriota sente nel dolore del suo animo straziato dalla visione dell’Italia su cui accampa il barbaro massacratore nazifascista, quella consegna ci sembra più sacra quando noi la cogliamo nel discorso dei nostri morti: combattere fino alla vittoria, fino alla libertà; osare ancora, fare di più, volere tenacemente e instancabilmente la vita e la libertà per noi e per l’Italia, perché volere questo, conquistare questo è il suffragio migliore per la loro memoria”.