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La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.

SCIPIO SLATAPER

“Vorrei dirvi: Sono nato in Carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo (…..). Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia nella grande foresta di roveri. (….) Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa. Poi sono venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l’italiano, ho scelto gli amici fra i giovani più colti; - ma presto devo tornare in patria perché qui sto male.

Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste subito che sono un povero italiano che cerca d’imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni”.

Così Slataper, in una celebre passo de Il mio Carso, la sua “autobiografia lirica”, parlava di se stesso. Era nato a Trieste nel 1888, e ancora liceale era stato introdotto negli ambienti irredentisti e socialisti dal suo maestro e amico Pasini, che gli aveva fatto pubblicare alcuni articoli sulla rivista letteraria Il Palvese , sul quotidiano socialista Il Lavoratore e sul periodico La vita trentina di Cesare Battisti.

A vent’anni si era trasferito a Firenze, dove aveva seguito gli studi presso l’Istituto di Studi Superiori, conseguendo la laurea con una tesi su Ibsen. A Firenze aveva scelto i suoi amici “tra i giovani più colti”, avvicinandosi al gruppo dei Vociani – conobbe Prezzolini, Papini, Soffici – ed elaborando una estetica in cui rivendicava alla poesia la passione dello “uomo pratico” nella “vita multiforme del suo tempo” , la sua fede nella “moralità dell’arte” – Ezio Raimondi parla di “stoicismo neoromantico” - , lo sforzo continuo dell’artista di “far chiaro dentro di noi”.

In questa visione della vita impregnata di un forte e sofferto moralismo non poteva mancare l’interesse per i problemi i politici del suo tempo, per i destini della sua città, di un mondo in cui tre diverse culture si incontravano e si scontravano da tempo: quella tedesca, quella slava e quella italiana. Animava Slataper, come anche il socialista Vivante, la speranza che Trieste potesse mediare, alla luce di una superiore spiritualità, le spinte drammaticamente contrastanti che laceravano le diverse nazionalità dell’Austria-Ungheria. Era il sogno di quell’ “irredentismo culturale” che ebbe una stagione brevissima e che venne presto sconvolto dalla tragica realtà della guerra. Nel 1910, tracciando sulla Voce un bilancio delle diverse forme di irredentismo, che aveva ormai “mezzo secolo di vita” - Slataper scriveva: “Irredentismo colturale. E’ l’irredentismo triestino, e quello che i socialisti affermarono per la prima volta, negando l’importanza dei confini politici. E’ l’irredentismo della Voce. Noi non neghiamo l’importanza dei confini politici, ma sentiamo fermamente che non contengono la patria. L’affetto di patria è il ritrovarsi storico di ogni attività individuale in una tradizione consentanea ai suoi bisogni e desideri. (….) Noi, è inutile negare, viviamo internazionalmente; e tra un tedesco intelligente e un italiano sciocco, preferiamo il tedesco. In un certo senso, dunque, ma nel solo senso possibile, è già compiuta la federazione dei popoli”.

Gli anni di collaborazione alla Voce – per qualche mese, tra la fine del 1911 e gli inizi del 1912 ne divenne anche segretario di redazione – erano anni in cui il destino di Trieste gli sembrava destinato a superare l’angusta prospettiva austro-italiana per diventare in qualche modo di significato europeo, emblematico dei valori più alti della civiltà moderna. Nel 1912 sua preoccupazione costante è quella di mostrare alle forze politiche e agli intellettuali italiani il vero volto della sua città, al di fuori delle deformazioni retoriche sbandierate dai liberal-nazionali e dalle superficiali analisi economiche dell’imperialista Timeus. In un lungo articolo comparso in due puntate sulla Voce tra il maggio e il giugno 1912 col titolo “L’avvenire nazionale e politico di Trieste” vuol mettere in guardia gli italiani dal pericolo di credere nella “naturale menzogna” che voleva tutti i triestini pronti ad “insorgere da eroe” contro il tiranno austriaco. Gran parte della città badava soltanto ai commerci ed al proprio utile: “Essa non discuteva nemmeno, se non nei periodi di crisi commerciale, cosa sarebbe accaduto di lei al di fuori del nesso dell’Austria, perché in tutti i casi un simile mutamento sarebbe stato uno scrollo ed un incaotimento di tutta la sua vita”. Al contempo polemizza contro le argomentazioni economiche di Timeus, che si culla nella illusione che Trieste sia per sua natura il miglior porto dell’Adriatico e che quindi non sia in alcun modo debitrice nei confronti dell’Austria. Slataper condivide appieno la vecchia tesi di Domenico Rossetti sul carattere “artificiale” del porto triestino e quindi sulla importanza fondamentale del suo “nesso” con i domini asburgici.

Mentre rifiuta le rivendicazioni espansionistiche care a Timeus e ai nazionalisti, che non sono capaci di vedere nelle competizioni nazionali altro che “lotta di forza”, prende le distanza anche dal pacifismo e dall’internazionalismo socialista: i socialisti – costante è il suo riferimento a Vivante – ammettono e santificano “la lotta di classe, lotta di bisogni economici, lotta inferiore cioè, d’istinti radicali, materiali”, ma non sono in grado di “spiegarsi la lotta nazionale, che è lotta di civiltà, di dominio e di forme culturali, lotta che dovrebbe escludere per definizione l’homo homini lupus”.

Il suo discorso, in realtà, è pieno di sottili distinguo che non sembrano sempre convincenti: nello stesso momento in cui rifiuta la ideologia bellicista dei nazionalisti, la atmosfera esaltata che questi avevano con successo propagandato sullo sfondo della guerra di Libia, afferma che “non è vero che tutte le nazioni abbiano lo stesso valore” ed aggiunge che “è naturale, buono, che queste forme di civiltà si combattano con tutti i mezzi che le possano veramente accrescere, con tutti i mezzi ch’esse riconoscono necessari per il loro fondamento civile. E sia pure la guerra”. Non tutti i popoli hanno gli stessi diritti e per ottenerli bisogna “sentirne il bisogno, cioè volere e combattere”. E’ indubbio che gli italiani di Trieste sono più colti degli slavi e più decisi nel difendere i loro diritti, quali ad esempio la loro “scuola italiana”, e ciò lo induce a concludere che “gli slavi oggi (….) non sono civili come noi”.

Alla fine dell’articolo la sua professione di fede tante volte citata: “Come non sono irredentista, non sono neanche socialista, perché ormai i socialisti accettano l’esistente e non operano per trasformare: “Anch’io col Vivante, anzi col Valusssi, col Tommaseo, vedo chiaramente che il compito storico di Trieste è di essere crogiolo e propagatore di civiltà, di tre civiltà. E’ meraviglioso e quasi vertiginoso pensare come in questo nostro piccolo angolo d’Europa si combattano le forze e i problemi che forse sono tra i più gravi del mondo occidentale d’oggi: germanesimo e slavismo, problema balcanico, egemonia commerciale, avvenire austriaco e italianità”.

Nel 1913, dopo aver sposato a Trieste Luisa Carniel (“Gigetta”), si reca ad Amburgo come lettore d’italiano presso il Kolonial Institut, ma tra il 1914 e il 1915 è di nuovo a Trieste e poi a Roma dove organizza la propaganda interventista. Lo scoppio della guerra aveva cambiato infatti radicalmente la situazione: le mediazioni, i sottili tentativi di tenere distinti il piano immediatamente politico e quello delle idealità culturali, sembrano ormai impossibili. Nel novembre del 1914, scrivendo sul Resto del Carlino, Slataper ammette che ormai la scelta per l’Italia è segnata: “Dal primo momento la nostra neutralità non poteva cessare che contro l’Austria, per l’Adriatico e per i Balcani dei popoli balcanici. La guerra in Turchia ci sta dimostrando giorno per giorno che dobbiamo essere anche contro la Germania, per il Mediterraneo. Il resto è illusione e assai pericolosa”.

Ne Il mio Carso (1912) Slataper pensava ancora che il “mongolo”, lo “slavo, figliolo della nuova razza” potevano ben giocare il ruolo che spettava al loro popolo giovane. Se il “povero sangue italiano” era “malato di anemia” ed incapace di costruire la sua storia, allora bisognava lasciare il passo a chi ad un pugno rispondeva con due pugni, a chi non sedeva tra le dame del caffè Specchi, ma “nella taverna più lurida di Cità vecia”. Ora, tre anni dopo, agli inizi del 1915, Slataper si riconcilia con i nazionalisti e il suo atteggiamento nei confronti degli slavi è del tutto cambiato. Ora la prospettiva che si apre all’Italia è quella di raggiungere una posizione di forza e di conquistare una volta per tutte i “confini naturali” e questi confini non abbracciano soltanto il trentino e l’Istria, ma anche Postumia, Fiume, la Croazia e la Dalmazia come parte del problema adriatico, “anche più importante in un certo senso di quello della frontiera di terraferma”. Non è solo una questione geografica o di sicurezza militare, ma un vero e proprio scontro tra civiltà e inciviltà: “L’Alpi Retiche, le Carniche e le Giulie non dividono soltanto due regioni, ma due civiltà, distinte e anzi opposte: la danubiana e l’adriatica”. Si tratta della pagina finale di una lotta perpetua: “In questo senso la nostra conquista di Trieste non sarà che il ritorno degli aquileiesi scampati di fronte ad Attila ed Alboino”. In queste retoriche effusioni le distinzioni tra i piani storici sono del tutto dimenticate e il “triestino Fortunato, patriarca di Grado” – l’uomo che compare tra i protagonisti del “Placito del Risano” (803?) - gli appare ora come il “precursore dell’irredentismo”.

Il saggio Confini orientali, pubblicato nel 1915, è il punto d’approdo emblematico delle riflessioni di Slataper sui destini di Trieste e dell’Italia. Pur rifiutando soluzioni estreme quali una “dittatura militare” o un’ “assimilazione rapidissima” nei confronti delle minoranze nazionali entro i futuri confini del Regno, Slataper non ha più alcun dubbio sui diritti dell’Italia al controllo completo dell’Adriatico, “nostro mare” per diritto storico e quindi sulla necessità di una assimilazione di tutti gli slavi: “Certo il compito non è facile, ma (….) i desideri politici dei piccoli gruppi smembrati contano assai poco. Né la Francia avrebbe potuto fare la guerra soltanto per l’Alsazia e Lorena, né l’Italia per Trento e Trieste”. Il “cittadino” Slataper abbraccia in pieno il principio della Kulturnation e mostra il tradizionale senso di superiorità nei confronti del mondo delle campagne. Gli sfugge del tutto il fatto che esiste ormai una borghesia slovena e croata con una sua precisa identità nazionale: “Ora non soltanto i contadini slavi, ma di tutte le nazioni, hanno se mai un sentimento economico e campanilistico, non nazionale, si sommuovono per il pane, non per lo stato; mentre viceversa sono proprio essi, la loro ottusa resistenza che perpetua lingua e costumi nazionali anche quando la borghesia snazionalizza. Sicché il fenomeno più importante sarà questo: che mentre la lingua slava continuerà a essere diffusa e predominante in molta parte delle nuove campagne, mancherà invece l’elemento per una vera agitazione nazionalista slava”. Dalle diverse regioni del regno dovrà partire una nuova, decisa, spinta all’urbanesimo, finché la borghesia slava si estinguerà a poco a poco, “non per costrizione legale ma perché i posti governativi e in parte comunali non saranno più soltanto per lei, e i medici e gli avvocati slavi avranno sempre meno da fare, mancando via via i clienti dalla Carinzia e dalla Carniola. I pochi agitatori slavi che resteranno sarà facile sorvegliarli e tenerli a freno”.

Come osserva opportunamente Elvio Guagnini, “in queste note crude, disincantate e “realistiche” all’estremo verso problemi così complessi, pesava una convinzione enunciate poche pagine prima: “se la seconda metà del secolo scorso segnò la vittoria del principio nazionale, il nostro secolo s’è iniziato appunto con il tentativo di trovar una soluzione per i territori dove s’intersecano due o tre sfere d’influenza nazionale (etnica, linguistica, economica, politica), per le quali il principio mazziniano è una pura parola””.

Gli anni vociani, così vicini, sono eppure irrimediabilmente lontani. All’entrata dell’Italia in guerra Slataper si arruolò volontario nei granatieri, e nel giugno del 195 fu ferito presso Monfalcone. Guarito, tornò al fronte, e il 3 dicembre dello stesso anno cadde sul Podgora durante un’azione di pattuglia.


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