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La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.

ANTONIO DE’ GIULIANI

“Il presente Saggio […] non contiene già idee raccolte fra gl’agj, e le mollezze. Egli non è un parto di un uomo, che si nutre di sistemi, e di teorie, ma di un uomo, che abbandonato a se stesso, non ebbe altra scorta, che la Natura: di un uomo, che soffrì il peso di tutti gli errori, e di tutti i pregiudizj, che guidato per le strade le più disastrose, ebbe campo di conoscere, e sentire le miserie della vita, e che con una sensibilità tutta concentrata portò uno spirito di rigida, e mai interrotta osservazione sopra li minimi rapporti della Società, sopra tutte le condizioni, sopra le differenti Classi, e sopra le maniera di esistere, che dopo aver corsa la carriera delle illusioni, altro non ambisce, che di vivere ignorato, ed altro non cura, che di far noto quel zelo, che in ogni tempo animò la sua penna”.

Così si presentava nel 1791, nelle ultime pagine del Saggio politico sulle vicissitudini inevitabili delle società civili, Antonio de’ Giuliani, ultimo erede di una delle più antiche e illustri famiglie del patriziato triestino: ricordava con amare parole le vicissitudini del suo casato e la povertà in cui la condanna del padre, amministratore del Monte di pietà di Trieste, aveva lasciato la sua famiglia.

Da anni il conte, laureato in giurisprudenza all’Università di Vienna negli anni in cui imperava Joseph von Sonennfels, e dove aveva frequentato il Metastasio e probabilmente anche il Da Ponte, godeva dei favori della corte; nel 1785 lo stesso Giuseppe II aveva concesso in persona il placet per la pubblicazione della sua prima opera di saggista, le Riflessioni politiche sopra il prospetto attuale della città di Trieste.

Era stato egli stesso a presentarsi a Giuseppe II per perorare la causa propria e quella di Trieste ed aveva esposto con entusiasmo e vigore un progetto di sviluppo della città “nascente”, che per le sue abbondanti attrezzature e per la felice posizione geografica era molto più vantaggiosa per lo Stato “giovane” degli Asburgo che i porti del “burrascoso Carnaro” e del Friuli. In queste pagine de’ Giuliani faceva tesoro delle dottrine mercantiliste che aveva appreso a Vienna ed in particolar modo sosteneva l’esigenza fondamentale per uno stato che la bilancia commerciale fosse sempre favorevole. Convinto che per necessaria legge di natura gli stati e le società avessero una storia ciclica e che la loro decadenza fosse in qualche modo necessaria, invitava l’imperatore a non perdere tempo, ad approfittare di quella contingenza favorevole ed a potenziare tutti i settori della produzione e della amministrazione, dalla pesca alla navigazione, dalle industrie al sistema doganale, alle strade, ai trasporti, poiché Trieste “deve assolutamente ingrandirsi. […] All’ingrandimento della Città di Trieste, e della sua popolazione per ora non sono assegnabili i confini”.

Questa fede mostrata nella “rivoluzione dall’alto” che il figlio di Maria Teresa stava con forza conducendo nei suoi domini gli valse subito dopo la pubblicazione delle Riflessioni un incarico di responsabilità: per incarico del sovrano doveva visitare i porti del Mediterraneo e stendere una particolareggiata relazione. Da questa Giuseppe II avrebbe tratto utili consigli per il suo piano di riforme.

Come consigliere commerciale ed economico Giuliani abbinava due doti non trascurabili. Da una parte una solida cultura, sostanziata da ampie letture che andavano da Montesquieu al Filangieri, dal marchese Mirabeau, l’“ami des hommes”, ad Alexander Pope, a Newton, a Locke, ai sensisti ai fisiocratici, all’amato Tacito, che con il passare degli anni gli sarebbe stato sempre più caro; dall’altra “uno spirito di rigida, e mai interrotta osservazione”, una spiccata tendenza alla analisi realistica e disincantata degli avvenimenti che avrebbero fatto di lui un “illuminista diffidente”, come sintetizza felicemente Giorgio Negrelli, autore di un noto studio sull’intellettuale triestino.

Il lungo viaggio nel Mediterraneo - e forse anche a Parigi, secondo il Kandler - fu l’occasione di un profondo ripensamento, che lo allontanò via via dalle posizioni giovanili: nato da una famiglia che vantava di aver ricevuto da Federico I Barbarossa il titolo di conte palatino, ma che era caduta in povertà, egli aveva trovato la sua identità nell’idea che l’arricchimento, alla fin fine, potesse giustificarsi solo con superiori fini etici e culturali. Ora il panorama offerto dai porti europei, dalle grandi città “commerciali” era quello di una lotta senza quartiere per la ricchezza, dove chi era più debole soccombeva irrimediabilmente e veniva ridotto ad una condizione miserabile.

Poco dopo la rivoluzione francese e i fatti che ne seguirono accentuarono ancor più questa sua “diffidenza” nei confronti dell’ottimismo illuminista e borghese: “Vedute nel frattempo le rivoluzioni che agitarono l’Europa - così ricordava Kandler, che lo conobbe nei suoi ultimi anni - era d’idee opposte a quelle professate in giovinezza”. Tutto quell’agitare di moti, di rivolte, di speranze, di ribollente attivismo, gli sembrava inutile, fuori luogo, come inutile era l’agitarsi dei filosofi e dei politici: il loro attivismo macina acqua dal momento che “l’uomo non è altro che un istrumento della Natura”.

è ormai solo un ricordo la fiducia giovanile nell’aumento armonico della popolazione e delle risorse economiche come garanzia di un progresso indefinito delle società: ora quell’“incremento” senza limiti gli appare destinato a rompere gli equilibri tra la classe dei “produttori” e quella dei “consumatori” voluti dalla natura: se ci sono più bocche da sfamare che “sussistenze”, il “corpo sociale” è destinato alla distruzione. I viaggi e la “osservazione” delle vicende europee lo hanno convinto che questo è un rischio implicito in tutte le economie in eccessiva espansione, come sottolinea nelle Riflessioni sopra i debiti e i crediti in rapporto alla legislazione ed alle rivoluzioni civili (1792), dove applica alla propria città la lezione che gli sembra derivare dai fatti francesi. Lo squilibrio tra debiti e crediti a Trieste e la dilagante speculazione finanziaria sono interpretati come un segno della incombente decadenza, dovuta ad una frenetica attività commerciale che “riposa tutta sopra un credito violento che l’eccessiva concorrenza ha reso necessario: in mezzo ad una corruzione universale ed in mezzo ad una rapacità senza espressione, che forma il carattere delle città mercantili”.

Come sottolinea Elio Apih “Questo quadro della città è ben diverso da quello tracciato sette anni prima; l’analisi dell’esperienza liberista triestina è ora legata ad una concezione precapitalistica del commercio inteso come attività da permettere, con controlli, solo in vista di un non equivoco utile comune. Se ne respinge, con consapevolezza del legame che intercorre tra ordine sociale e sistema economico, la demoniaca tendenza alla formazione di grandi capitali”.

Il suo pessimismo assume ormai una chiara valenza ideologica e politica: nel Messaggio alla Convenzione di Parigi (1793) de’ Giuliani si lancia in una difesa puntigliosa di Luigi XVI, la cui politica viene interpretata come un generoso tentativo di salvare il bene comune del paese armonizzando i diversi “ordini” della nazione: “Ricevete tutte siffatte verità da un uomo veramente imparziale, che si gloriava altre volte di pensare come voi, che si credeva illuminato dopo aver letto i vostri libri e dopo avere studiato i vostri principi, ma che poi è stato forzato di mutar pensiero e di darsi molta pena per ritornare in sé stesso dalle prime impressioni, subito ch’egli ha sostituito la meditazione alla lettura, e dopo ch’egli ha veduto la gran differenza che passa tra il mondo della fantasia e quello della Natura”. Lo scritto diventa - per usare le parole di Elio Apih - “una sorta di testamento politico antigiacobino un po’ alla De Maistre”. È vuota illusione degli uomini la ricerca della libertà, è vano “il piantare sulla terra un albero [quello della libertà] da lei non mai prodotto ed il cui seme non ha esistito giammai”, poiché l’unica eguaglianza possibile, dato che “vi saranno sempre nel mondo gli oppressori e gli oppressi”, è la morale felicità […] stata mai sempre indipendente dalle distinzioni”.

Ormai al nobile triestino non resta che raccomandare che siano “i re meno indolenti in tempo di calma, i nobili meno alteri nella sazietà, ed il popolo un po’ più paziente nella miseria”, dove il limite tra l’esortazione allo stoicismo - come sottolinea Apih - e l’elogio della politica reazionaria è malamente rintracciabile”.

La critica che aveva rivolto alle illusioni riformatrici dei monarchi illuminati ora coinvolge anche gli illuminati “citoyens”. Anche i borghesi che hanno fatto la rivoluzione hanno compiuto lo steso errore: hanno fatto violenza alla natura, rompendo quell’equilibrio che solo è garanzia di pace, di benessere e di felicità. Con ciò hanno minato le basi stesse dello stato. È la condanna totale dell’illuminismo e di tutti coloro che, sovrani, ministri o cittadini, hanno seguito i suoi falsi miti: “La vostra scienza consister deve a seguir l’ordine naturale delle cose per non voler poi l’impossibile e non lasciarvi trascinare con falsi ragionamenti a certe operazioni che non vi permettono più di tornare indietro e che vi rendono responsabili di quella vana confidenza che ha l’uomo nei propri lumi””.

Era la Natura a dettare le leggi all’agire degli uomini, non le idee, non la “fantasia” dei “philosophes”. Nelle sue pagine ricorrono sempre più spesso interpretazioni che si rifanno ad un modello deterministico di tipo chimico-fisico, che egli trae dagli scritti di Newton e di Pope, dai suoi amati filosofi sensisti, e che ora applica anche alla analisi dei fatti umani e delle vicissitudini delle società. L’uomo si illude di essere attivo, ma in realtà dipende da leggi che egli non conosce, da una gravitazione universale che si esprime sia sul piano fisico che su quello politico. Bisogna farsi “allievo della Natura”, farsi “istrumento” di essa, come insegna l’arte del condurre la nave: “Il pilota, è vero, la dirige, ma sempre ei riceve la legge del vento”.

Dal 1793 al 1831 de’ Giuliani, “viennese ormai di elezione” come lo descrive Negrelli, abitò nella capitale dell’impero, probabilmente continuò sempre a viaggiare, sicuramente scrisse. Mantenne comunque i contatti con la città e per lungo tempo svolse le funzioni di deputato della Borsa di Trieste. Gli scritti di questo periodo, tra i quali spiccavano i resoconti presentati all’imperatore Francesco I sui viaggi condotti in vari paesi europei, rimasero a lungo inediti.

Nel 1829, stando alle parole di Kandler che lo conobbe in vecchiaia, de’ Giuliani avrebbe appoggiato il programma politico di Domenico Rossetti: perlomeno il Kandler ricorda di aver “letto il suo nome, unico degli antichi patrizi, in supplica che desiderava lo ristabilimento del patriziato”. L’orgoglioso discendente dei “Conti Giuliani” e dei nobili Bonomo ritornò a Trieste nel 1831, quando alla morte del fratello Saverio entrò in possesso di una piccola eredità. Si ritirò allora in una casa di campagna al Boschetto e lì visse isolato, sottraendosi ad ogni impegno politico, ormai irriducibilmente lontano dal corso che le vicende europee avevano intrapreso.

Nel 1835, in punto di morte, liberò i propri contadini dai vincoli feudali e lasciò tutti i suoi beni all'Istituto dei Poveri.

Pochi anni dopo, nel 1842, moriva anche il “novello” Domenico Rossetti. Finiva con loro la vecchia Trieste patrizia, ormai sopravvissuta a se stessa, disperatamente incapace di venire a patti con il nuovo mondo dei “borghigiani”.


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