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storia_ts:biografie:hermet_francesco



La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.

FRANCESCO HERMET

Francesco Hermet nacque a Vienna nel 1811 da una famiglia di origine armena che si era stabilita a Trieste nella seconda metà del XVIII secolo; studiò all'Accademia di Commercio e Nautica di Trieste, ma fin da giovane mostrò di prediligere il teatro, calcando le scene come dilettante già a 18 anni.

La passione non fu passeggera: lo troviamo tra i fondatori della Società Filarmonico-Drammatica e nel 1831 attuario del “Teatro Grande” (oggi “Teatro Comunale Giuseppe Verdi”). Mecenate pieno di intraprendenza, nel 1845 fece erigere a proprie spese il teatro “Corti”, così chiamato dal nome dell’architetto che lo aveva progettato (il teatro oggi non esiste più) e fondò nel 1860 l’Istituto di Mutuo Soccorso per i commercianti, più tardi divenuto Società di Mutuo Provvedimento.

Alla attività di benefattore Hermet unì un forte impegno politico, che lo vide vicino agli ideali del ceto medio filoliberale fin dal 1848-49, quando si impegnò come giornalista, attivo in fogli politici quali Il Costituzionale e La Frusta (da lui fondata) e propugnatore della Società dei Triestini: all’interno di questo sodalizio politico, sciolto di autorità nel 1850, Hermet fu in prima fila nella battaglia per il ristabilimento della “provincialità” di Trieste, assieme a Kandler ed a Felice Machlig.

Emblematico di questa sua prima fase politica fu il tentativo di far riprendere la pubblicazione della Favella; il giornale fu ben presto fatto morire dalla polizia ed egli, come racconta nelle sue Memorie autobiografiche, invano cercò un avvocato che lo difendesse: “Avevano paura. Mi difesi da me”.

Alla fine dell’“era di Bach”, ed in particolare dopo il “Compromesso” del 1867 che dà vita al nuovo Stato costituzionale, si aprono in città nuove possibilità per una libera dialettica politica ed Hermet riprende la sua attività con successo: risulta eletto Consigliere comunale, mandato che assolverà per diciannove anni, ed ottiene anche la carica di vicepresidente del Consiglio. è ormai uno dei protagonisti della vita politica triestina, e viene scelto quale presidente del partito nazional-liberale, che egli guida alle più significative affermazioni elettorali.

Ma è anche rappresentante tipico di quella borghesia triestina disposta al compromesso, di una borghesia che esalta gli ideali di nazionalità e di italianità, ma che sta ben attenta a non rompere con Vienna. Anche se la polizia continuava ancora nel 1858 a schedarlo come “Teatralagent”, egli era già da due anni entrato definitivamente nella finanza e dal settembre del ’60 era titolare dell’agenzia generale per il Litorale della neocostituita Fenice austriaca, la maggior compagnia assicuratrice di Vienna. Come scrive Giorgio Negrelli, che lo chiama “il grande istrione, il popolare tribuno”, “Destra e sinistra, “liberali” e “fedeloni” […] sono tutti espressione di uno stesso mondo cosmopolitico, di uno stesso ceto dirigente, quello finanziario delle banche, delle Assicurazioni, del Lloyd, di qualche grosso industria o Casa commerciale locale; sono intimamente legati da rapporti palesi e segreti, degli affari e della massoneria”.

Nel 1867, davanti al Commissario Imperiale, tutta la Dieta nega con forza di volere il distacco di Trieste dall’Impero ed Hermet rinnova la fedeltà della città agli Asburgo, nega di volere, come avevano fatto gli ungheresi, la unione personale con il Monarca: “Noi non vogliamo che la nostra nazionalità italiana, noi non vogliamo che i diritti congiunti con questa nazionalità, ma vogliamo essere uniti ad una Austria grande, ma niente più, insistendo però sui nostri diritti che ci sono garantiti”.

Come sintetizzava bene il Kandler, Trieste con l’Austria, non Trieste nell’Austria! Era il modo più indolore per certa borghesia triestina per continuare a godere di tutti i benefici derivanti dall’unione con la Monarchia asburgica - nel frattempo Hermet fece anche carriera nel Lloyd Austroungarico arrivando alla carica di direttore della Prima sezione - e rivendicare al contempo una posizione speciale, fatta di autonomie e di vecchi privilegi.

Era ancora, per tanti aspetti, il vecchio progetto “municipalista” e non a caso il discorso di Hermet è tutto pieno di citazioni tratte da Domenico Rossetti, considerato sempre “l’autorità prediletta e la più autorevole in fatto di cose triestine”: è ciò che rimane del vecchio “cosmopolitismo triestino”, “di quella società plurinazionale che si era ritrovata nella “nazione triestina”.” (Giorgio Negrelli)

Gli ultimi anni della sua attività confermarono il permanere di questa ideologia, fatta di retorici appelli nazionali e di concrete scelte compromissorie, ed al contempo furono caratterizzati da una sempre più decisa chiusura nei confronti della popolazione slava della città e del “territorio”. Quando nel luglio del 1868 scoppiarono dei disordini che opposero cittadini italiani alla “guardia civica” (composta da “territoriali” sloveni) e che portarono alla morte di uno studente e di un operaio, Hermet fu durissimo nel condannare i fatti ed ad attribuirli a “agitatori” senza scrupoli. Nelle sue parole un argomento che i nazionalisti a Trieste avrebbero ripreso infinite volte: la colpa era dei “curati e dei delegati, villici anch’essi”, che fomentavano i contadini al solo scopo di “far prevalere quei principi per i quali la civiltà ci dovrebbe venire dalle steppe della Siberia”. Hermet, come gran parte della borghesia liberale triestina, era del tutto incapace di comprendere il nascente movimento nazionale dei Croati e degli Sloveni, la fondatezza delle loro richieste, ed attribuiva ogni responsabilità del nuovo clima creatosi in città ad un gruppo di sacerdoti, di “agitatori” conquistati dalla propaganda panslavista.

Questi atteggiamenti antislavi erano destinati a prendere sempre più piede tra i liberalnazionali e il terreno prevalente di questo scontro fu la politica scolastica. Nel 1871 Hermet teorizza la necessità di attribuire “a ciascuno il suo”, invitando il Consiglio cittadino a dotare gli abitanti del “territorio” di una scuola di second’ordine, non potendo questi pretendere dal Comune di “essere trattati egualmente” rispetto ai cittadini, cadendo così in “una strana confusione”.

Con il passare degli anni le crescenti cautele di Hermet nei confronti del governo di Vienna lo resero però impopolare tra gli stessi sostenitori del partito liberalnazionale. Quando nel 1879, in occasione delle elezioni comunali, egli propose come candidato per la “Prima Curia” il ricco commerciante Francesco Dimmer, di famiglia tedesca e notoriamente filogovernativo si levarono numerose le proteste contro di lui. A nulla valsero i suoi richiami alla “salute pubblica”, che doveva far passare la questione nazionale in secondo piano per la eccezionalità del momento che imponeva il rispetto della più rigorosa legalità, la sua difesa dell’ordine costituito contro le seduzioni che provenivano dal radicalismo repubblicano e garibaldino: egli venne giubilato, come si addiceva ad un vecchi leader prestigioso e fu messo da parte.

La sua morte, nel 1883, chiudeva, dopo quella di Pietro Kandler e dell’avvocato Arrigo Hortis, la prima fase del liberalismo triestino, di quel liberalismo che aveva fatto le sue prove nel 1848-49 e che ormai il nuovo corso dell’irredentismo stava mettendo in soffitta.

Postume vennero pubblicate le sue Memorie della Società Filarmonico Drammatica (Trieste 1884) e le Memorie autobiografiche (Trieste 1933).


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