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Le pagine wiki relative al Museo Sartorio sono state, di recente, ampiamente aggiornate.
storia_ts:storia:1948_1952



La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.

LIBRO OTTAVO: 1948 – 1952

Parte prima: 1948 – 1951

In una pagina dalla forte impronta autobiografica Corrado Belci ricordò il grande impatto emotivo che la Dichiarazione tripartita ebbe in città appena venne conosciuta dalla popolazione e dalle forze politiche: “La prima illusione della Zona B di poter essere ancora Italia fu offerta dalla “Dichiarazione tripartita” del 20 marzo 1948. Era una solenne dichiarazione di tre dei quattro grandi derivante dall'impossibilità di realizzare il Territorio libero di Trieste, ma era una “dichiarazione di principio”, cioè un riconoscimento politico teorico. In quel momento però tutto sembrò diventare più roseo.

Ma fu un momento. […] Nessuno, in quel momento, si poneva il quesito di quanto la “Dichiarazione” dei tre governi occidentali potesse contenere di finalità elettorali a favore dei partiti “occidentalizzanti”, e quindi della DC, alla vigilia del voto per il primo parlamento italiano che si sarebbe tenuto il 18 aprile 1948.

Nessuno si chiedeva quanto di impedimento pratico potesse incontrare un “proclama” privo del consenso dell’Unione Sovietica, e quindi unilaterale. Nessuno pensava minimamente a quali procedure giuridiche internazionali si sarebbe dovuto ricorrere per passare da una dichiarazione a una attuazione dell'impegno.

Per noi la questione di Trieste era un fatto di vita o di morte che rendeva un po’ distante e sfocata anche la campagna elettorale italiana. La disputa sulla finalità elettorale o meno della Dichiarazione tripartita sarebbe sorta più tardi.

Ma se si tien conto della scelta di campo internazionale, decisiva per l'Italia, che assumevano le elezioni del 18 aprile 1948, si può convenire a posteriori che l'aspetto elettorale e quello sostanziale finivano quasi per coincidere, se non sul terreno specifico di Trieste, almeno sul piano internazionale.

Ma intanto valeva l'euforia del momento, il “goditi l'attimo”, per quello che ritenevamo un grande passo in avanti. Da allora in poi ogni passo italiano per avvicinarsi alla Zona A di Trieste (accordi di Londra del marzo 1952 che innestavano funzionari italiani nell'amministrazione alleata: “Dichiarazione bipartita” anglo-americana dell’ottobre 1953 per assegnare l’amministrazione della Zona A all'Italia, fino al Memorandum di Londra dell’ottobre 1954) era accompagnato dall'assicurazione che “non sarebbe stata pregiudicata la sorte della Zona B””.

Per sei anni il richiamo puntuale, rigido, alla Dichiarazione del 20 marzo 1948 costituì l'asse della politica estera italiana nei confronti della “questione di Trieste”: molto spesso l'unica arma messa in campo, anche quando divenne ormai evidente che si era trattato, per tanti aspetti, solo di una mossa tattica delle potenze alleate. Come fu breve il periodo in cui Londra e Washington avevano guardato in termini concreti alla creazione del Territorio libero di Trieste, così fu breve il periodo in cui la diplomazia anglo-americana confermò l'impegno a favorire il passaggio di Trieste e della Zona A all'amministrazione italiana.

Il netto rifiuto dei governi di Belgrado e di Mosca fece immediatamente cadere nel vuoto la possibilità di modificare il Trattato di pace attraverso la ventilata modificazione dei confini, ma la manifestazione di disponibilità degli occidentali non si ridusse ad una mossa esclusivamente tattica: dalla primavera del 1948, infatti, in pieno accordo con le autorità del GMA, la presenza italiana a Trieste e nella Zona A divenne sempre più determinante sia in campo economico che nelle strutture amministrative.

Tra marzo e settembre furono firmati numerosi accordi finanziari, tra i quali risultò particolarmente significativo quello che assegnò al ministero del Commercio estero italiano il controllo di tutti gli scambi internazionali della Zona A: solo dal ministero, a Roma, potevano essere concesse le licenze e solo tramite il ministero dovevano essere effettuati i pagamenti da o verso la Zona A.

Per di più Washington accolse subito con favore la domanda del governo italiano di rendere partecipi degli aiuti previsti dal piano Marshall anche Trieste e la Zona A: il 25 settembre del 1948 l'Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) stanziò 18 milioni di dollari per il primo anno del programma di ricostruzione della Zona A; 12 milioni dovevano servire per l'acquisto dei fondamentali beni economici e gli altri 6 milioni dovevano essere finalizzati alla ricostruzione industriale e all'acquisto di materie prime.

Il 14 ottobre 1948 l'OECE ammise la Zona A come membro a tutti gli effetti.

Per di più il governo italiano continuò ad amministrare da Roma tutti i beni parastatali controllati dall'IRI, e cioè la FINSIDER, la FINMECCANICA e la FINMARE, e quindi i settori metallurgici, metalmeccanici e i cantieri navali. A ciò si aggiungevano le filiali della Banca d'Italia, della Banca Commerciale Italiana e del Credito Italiano, il che permetteva di controllare il credito per l'industria e per il commercio.

Queste posizioni strategiche permisero di chiudere l'economia della città davanti a tutti i concorrenti indesiderati: quando la Jugoslavia cercò di aprire una propria banca a Trieste l'autorizzazione venne rifiutata, in quanto il Banco di Roma, che controllava le nuove operazioni finanziarie, ritenne che la “piazza” triestina non avesse bisogno di un altro istituto di credito. “Analoghi divieti” – sottolinea Bogdan Novak – “subirono tutti i gruppi indipendenti, comprese le società straniere che volevano iniziare una qualsiasi attività economica nel Territorio Libero. Soltanto in seguito al deciso intervento del GMA il governo italiano permise a un'agenzia di viaggi svizzera di aprire una filiale a Trieste.

[…] La prima conseguenza della Dichiarazione tripartita fu quindi di incrementare il controllo dell'Italia sull'economia di Trieste e di rallentare lo sviluppo di un'economia indipendente che avrebbe potuto rafforzare il movimento indipendentista di Trieste”.

Pochi mesi dopo la proclamazione della Dichiarazione tripartita, un altro avvenimento venne a modificare lo scenario internazionale in cui la “questione di Trieste” era ormai da tempo inserita. Il 28 giugno 1948 i delegati del Cominform, riuniti senza la presenza dei rappresentanti jugoslavi, pubblicarono una risoluzione in cui si condannava con grande durezza il comitato centrale del Partito comunista jugoslavo e in particolare i compagni Tito, Kardelj, Gilas e Rankovic sotto una valanga di accuse che andavano dall'avventurismo, al deviazionismo, all'arroganza nei confronti dei partiti fratelli, all'abbandono dell'ortodossia marxista-leninista.

Era una vera e propria “scomunica”, ma in un primo momento non apparve tale alle diplomazie occidentali, che ne sottovalutarono in pieno la reale portata.

A Trieste la questione sembrò in un primo momento interessare solo i comunisti e la rottura tra i seguaci di Vidali e di Babic confermò questa prima percezione. Fin dalla fine di giugno la spaccatura coinvolse tutte le diverse organizzazioni che costituivano il movimento comunista, compresa la stessa stampa: mentre Il Lavoratore si dichiarò in favore dei “cominformisti”, il Primorski dnevnik, dopo qualche esitazione, si schierò a fianco di Tito.

Mentre numerosi giornali italiani si rallegrarono subito per l'improvvisa rottura, mossi anche dalla speranza che il partito di Togliatti non avrebbe più appoggiato le rivendicazioni di Belgrado, i giornali triestini dell’“arco italiano” non tardarono a mostrare perplessità e preoccupazioni.

Cominciò infatti a farsi strada il timore che la rottura tra Stalin e Tito avrebbe avvicinato le posizioni del governo jugoslavo e degli alleati, vanificando così l'impegno contenuto nella Dichiarazione tripartita: lungi dall'indebolire Tito, la rottura con Mosca lo avrebbe rafforzato sul piano internazionale!

Di fronte al nuovo scenario la posizione ufficiale del governo italiano non mutò e il ministro degli Esteri Sforza dette ordine ai diplomatici italiani di premere sugli alleati occidentali per indurli a riconfermare pubblicamente, in ogni occasione possibile, la loro immutata fedeltà alla decisione del 20 marzo.

In realtà, i responsabili dei vari dicasteri, pur comprendendo che la carta da giocare era di scarso valore pratico, erano ben consapevoli che si doveva giocarla fino a quando non se ne fosse trovata un'altra migliore.

La coscienza del profondo cambiamento causato dalla “scomunica” di Stalin e dei partiti “fratelli” traspariva però chiaramente dalle testimonianze di alcuni dirigenti politici italiani che avevano una posizione di primo piano in quegli anni.

Carlo Sforza annotò nelle sue carte: “Cominciai a considerare seriamente quel che restava da fare per giovarci della Dichiarazione tripartita fino al limite delle possibilità, posto che una sua rapida e integrale realizzazione appariva purtroppo inattuabile.

Fu così che giunsi a concepire l'idea di trattative dirette italo-jugoslave che avessero per fine di affrontare tutte insieme le questioni politiche, economiche e territoriali pendenti tra i nostri due paesi e quindi di arrivare a una definitiva sistemazione dei nostri rapporti”.

Con lo stesso spirito, l'ambasciatore italiano a Washington, Alberto Tarchiani, sottolineò preoccupato “la debolezza crescente e irreparabile degli Anglo-Americani nei riguardi dell'uomo che aveva saputo affrontare Stalin”.

Quando, agli inizi del 1949, le diplomazie occidentali si resero conto che la espulsione della Jugoslavia dal Cominform non era stato solo un “bluff” per ingannare gli avversari, la “questione di Trieste” si venne ridefinendo sotto una nuova prospettiva.

Washington e Londra decisero allora di fare ogni sforzo per “mantenere Tito a galla”, per impedire un suo rovesciamento dall'interno o da parte dei paesi comunisti controllati ancora da Stalin.

“La Jugoslavia cessa di essere una fonte di pressione contro la Zona A del TLT” – scrive Valdevit – “e, per converso, uno stato da contenere; quella di Trieste non è più una “cold war issue”.

Al contrario, a Washington si delinea l'idea di spingere l'Italia e la Jugoslavia a “sedersi attorno ad un tavolo”, a negoziare bilateralmente la soluzione della vertenza”.

Questo cambiamento di rotta nei confronti della “questione di Trieste” si inserì in un piano strategico più ampio quando la politica di contenimento perseguita da Truman portò alla costituzione della NATO attraverso la trasformazione del Patto atlantico in una potente alleanza militare a largo raggio.

A Trieste, questa ridefinizione degli interessi strategici occidentali venne percepita in modo distorto o comunque solo come un pericoloso “tradimento” da parte dei potenti. Le forze politiche “italiane” si trovarono tutte d'accordo sul rifiuto assoluto di ogni ipotesi negoziale che passasse attraverso colloqui diretti tra Italia e Jugoslavia. “L'opinione pubblica triestina e istriana” – scrive Giorgio Cesare, dirigente socialdemocratico che svolse un ruolo significativo in quegli anni, – “si attestò alla dichiarazione tripartita con la forza della passione e della disperazione: la data del 20 marzo significava l'Italia al Quieto, e solo su questa base si sarebbe potuto trattare”.

Anche i comunisti “cominformisti” di Vidali rifiutarono ogni ipotesi di accordo diretto tra Roma e Belgrado e si pronunciarono con forza a favore della creazione del TLT: in un articolo sul Lavoratore Vidali definì la via dei colloqui a due “il baratto infame”, e fece proprie le posizioni dell'Unione Sovietica, che continuava a richiedere l'applicazione puntuale del Trattato di pace invitando periodicamente il Consiglio di Sicurezza dell'ONU a nominare il governatore.

In questa posizione di stallo e di radicalizzazione la città si presentò alle elezioni amministrative del giugno 1949.

Mentre i partiti di sinistra si presentarono divisi all'importante scadenza e le polemiche tra i due partiti comunisti continuavano con toni sempre più accesi, la DC e gli altri partiti della “Giunta d'Intesa dei partiti italiani”, creata due anni prima, si presentarono uniti e poterono valersi dell'appoggio pieno, finanziario e politico, del governo di Roma.

Lo stesso De Gasperi tenne il comizio di chiusura in piazza Unità d'Italia alla presenza di un gran numero di cittadini – “Cento o centocinquantamila? Ciascuno ha la sua cifra”, scrisse Corrado Belci – e ribadì che il suo governo si attendeva la restituzione all'Italia di tutto il Territorio libero, dal Timavo a Trieste!

I risultati delle elezioni furono netti, inequivocabili: la DC, da sola, raggiunse quasi il 40% dei suffragi e dette vita con i suoi alleati ad una giunta retta da Gianni Bartoli, la prima di una lunga serie di intese ispirate a quel programma “centrista” che dalle elezioni dell'aprile 1948 sosteneva il governo a Roma.

A questa vittoria dette un contributo non trascurabile il voto degli istriani, la cui presenza in città assommava a circa 30.000 persone, su un totale di 270.000 abitanti. Molti voti istriani furono anche attribuiti al MSI.

Al secondo posto, forte di 35.548 voti, si schierò il Partito comunista del TLT. Non diversamente da quanto emergeva dalla situazione italiana, democristiani e comunisti risultarono le due forze più rilevanti. La differenza di peso politico era però netta, indiscutibile: mentre la DC aveva sfiorato il 40%, i comunisti si erano attestati sul 21%.

I risultati delle elezioni mostrarono inoltre che la forza dei “titini” favorevoli all'unione con la Jugoslavia era modesta anche nei paesi del Carso, dove essi raccolsero solo 1.387 voti contro gli 8.039 conseguiti dai “cominformisti”. Nel Comune di Trieste il Fronte popolare italo-sloveno non andò al di là del 2,35%.

Un risultato non trascurabile, infine, fu raggiunto dall'estrema destra: tra il MSI e il Blocco italiano (qualunquisti e monarchici) furono raccolti più di 18.000 voti, quasi l'11%.

Sul totale dei votanti il 62% si era espresso a favore della restituzione di Trieste e del suo Territorio libero all'Italia. Ci fu però chi fece notare polemicamente che solo poco più della metà dei votanti a Trieste era costituita da “nativi”!

La fisionomia politica con cui la città si definì nelle amministrative di giugno rimase sostanzialmente immutata nei due anni successivi.

L'elemento di maggior novità fu il lento ma continuo progresso dello schieramento neofascista e di quello autonomista, entrambi su posizioni critiche nei confronti della maggioranza governativa di De Gasperi.

I rapporti tra i partiti “italiani” e la maggioranza centrista a Roma erano destinati infatti a deteriorarsi sempre più, evidenziando delle contraddizioni di fondo che sarebbero rimaste insolute fino al Memorandum d'Intesa del 1954.

Giorgio Cesare dette un'analisi puntuale del sorgere dei primi attriti: “La Nota tripartita assumeva sempre più la funzione di un impegno solenne, di una decisione dalla cui integrale applicazione dipendevano la nostra futura politica estera e la nostra politica interna. Patto Atlantico, sicurezza nazionale, tutto si sarebbe dovuto subordinare alla restituzione, da parte degli alleati, dell'intero TLT. Ma questa tesi, sostenuta per amor di polemica, non poteva essere ascoltata dai partiti e dagli uomini di governo, fossero essi De Gasperi, Sforza, Pella, Saragat o Martino.

Soltanto l'estrema sinistra, che conduceva una battaglia di fondo contro l'alleanza atlantica, e la pattuglia dei fascisti dell'estrema destra potevano contrastare una politica di alleanze che corrispondevano a reali interessi nazionali”.

Il panorama internazionale, poi, non giocò certamente a favore della diplomazia italiana. L'appoggio dato dagli alleati occidentali a Tito non venne meno e lo scoppio della guerra di Corea rafforzò ancor più l'intenzione degli Stati Uniti d'America di accelerare quella politica di “contenimento” del pericolo sovietico che da anni Truman e la sua amministrazione portavano avanti in Europa.

In questa ottica, alla fine del 1951, gli americani decisero di concedere consistenti aiuti militari al governo di Belgrado, a conferma che la Jugoslavia aveva ormai assunto ai loro occhi un rilievo fino a qualche tempo prima del tutto impensabile.

Divenne così sempre più chiaro che la partita era diventata una partita a quattro: il Regno Unito, gli Stati Uniti, l'Italia e la Jugoslavia. La Russia, ormai, si era esclusa dal gioco diplomatico, come aveva già fatto da tempo la Francia. In questo contesto una soluzione della “questione di Trieste” sarebbe stata possibile solo attraverso una fase di negoziati bilaterali tra Roma e Belgrado e ciò avrebbe comportato necessariamente dei compromessi.

Parte seconda: 1951 – 1952

Si tornò a parlare di “aperture” e di trattative dirette e di nuovo queste iniziative furono accolte in città con sospetti e polemiche che la stampa amplificò spesso a dismisura.

Tornarono fuori vecchi accenti di esasperato nazionalismo che ricordavano da vicino certa prosa del ventennio. Si parlò nuovamente di lotta contro la “barbarie slava”, di ultimo baluardo della civiltà contro il pericolo dell’oriente, di “sentinella d'Italia”.

Il Giornale di Trieste – altro non era che una riedizione del vecchio Piccolo – usò correntemente tutti questi stereotipi, coinvolgendo nella condanna anche i partigiani e la resistenza e tenendo ben desta l'opinione pubblica nei confronti degli orrori del “panslavismo”, aguzzino e infoibatore.

I triestini non dovevano dimenticare mai che si era di fronte ad uno scontro decisivo per la sopravvivenza stessa della civiltà occidentale, minacciata dalla marea slava. Per raggiungere questo scopo anche qualche “perla” razzista poteva andar bene: “La situazione si è aggravata per l'introduzione di forme di pensiero che sono la negazione stessa della civiltà europea: “il materialismo storico, dottrina” – come dice il Redanò – “di marca ebraica, che non rappresenta se non il cattivo sedimento di posizioni che fecero il loro tempo un secolo fa””.

La mistificante identificazione tra “slavo” e “comunista”, che per tanto tempo sarebbe poi sopravvissuta in certi strati della popolazione, venne ripetuta in modo martellante e a nulla valse la rottura tra Belgrado e tutti gli altri stati comunisti.

La Jugoslavia venne sempre descritta come uno strumento perverso nelle mani del panslavismo russo, della barbarie comunista che cercava in ogni parte del mondo di aizzare i popoli contro la “razza bianca”: “Un gigantesco sforzo è stato fatto dalla Russia per suscitare contro la razza bianca ogni possibile reazione da parte dei popoli che gli europei avevano portato verso il progresso negli ultimi secoli”.

Rispuntarono così i vecchi furori, che trovarono “ampi consensi non solo tra i nostalgici del regime” – scrivono Ara e Magris – “ma anche tra i giovani, attratti da un nazionalismo violento e aggressivo, e tra i profughi istriani, la cui amarezza e il cui risentimento vengono sfruttati e strumentalizzati dagli eredi del regime che ha perduto l'Istria”.

Nel contempo le differenze tra i vari partiti e i programmi politici dello schieramento “italiano” si fecero sempre più evanescenti: “Rispetto al fascismo” – scrive Elio Apih, in sintonia con l'analisi di Ara e di Magris – “c'è più distinzione che discriminazione. Il discorso politico si polarizza sul tema “Italia-antitalia” e si trascura, o rifiuta, di rendersi conto di quanto il fascismo avesse impresso in profondità negli Sloveni e nei comunisti e quanto fosse arduo riproporre un'Italia democratica. Del resto un deciso antifascismo avrebbe finito per coinvolgere in un severo giudizio la funzione e collocazione sociale del ceto medio, nerbo della città”.

Poco spazio rimaneva dunque per una analisi razionale e realistica della situazione internazionale. Nulla o quasi era cambiato da quel maggio del 1947, quando il Monthly Report del GMA aveva descritto il comportamento dell'italiano medio di Trieste con parole sconfortanti: “È vissuto per quasi due anni in un vuoto, ed è oggi una persona quasi del tutto scoraggiata. Le sue reazioni sono state immotivatamente violente e la sua percezione degli avvenimenti su scala internazionale pressoché nulla”.

Allo scontro nazionale si sommarono in questi anni anche gli effetti della crisi economica che, nonostante gli aiuti del governo italiano e del piano Marshall, colpì la città in modo sempre più sensibile fino a portare, nel 1953, ad una disoccupazione che superava il 15%.

La situazione in città era tutta pervasa di spinte violente e di inviti allo scontro e le armi, da una parte e dall'altra, certamente non mancavano.

Il timore che la radicalizzazione dello scontro potesse indebolire i partiti che avevano dato vita alla “Giunta d'Intesa” indusse il governo italiano a premere sulle autorità del GMA per spostare la data delle elezioni amministrative che dovevano tenersi nella prima decade d'ottobre del 1951.

In realtà la “questione di Trieste” era diventata nel mondo politico italiano un elemento di scontro crescente anche tra l'opposizione di destra – il MSI, i monarchici e qualche rappresentante del PLI – e la maggioranza governativa: se ne ebbe un chiaro segnale quando il vecchio Vittorio Emanuele Orlando intervenne al Parlamento invitando con forza De Gasperi a seguire in politica estera una linea più intransigente: “Non si fa la storia belando come pecore, ma ruggendo come leoni”.

Agli attacchi, d'altra parte, non rimasero estranei neanche i comunisti, che applaudirono il novantenne oratore quando questi tuonò contro gli inglesi, “alleati nemici”, e contro il Patto atlantico.

Nel paese si respirava una tensione nuova, una partecipazione ai destini di Trieste e dell'Istria che non era mai emersa con tale forza. In un'intervista al New York Times, il senatore socialista Labriola dichiarò che le tensioni nazionali nel paese erano così forti che persino la guerra poteva essere popolare in Italia, se fosse stata dichiarata contro la Jugoslavia per salvare Trieste.

Ma il panorama politico generale, nel Territorio libero come a Roma e a Belgrado, non era certo dei più favorevoli e le preoccupazioni per la maggioranza “centrista” al Comune di Trieste crebbero di giorno in giorno, come anche i dubbi sulla opportunità di tenere le elezioni amministrative alle scadenze prefissate. Su questo lo scontro si fece sempre più duro man mano che crescevano i timori per i prossimi incontri diretti tra il governo italiano e quello jugoslavo: un appuntamento guardato da sempre con grande ostilità, ma caldeggiato in ogni sede dagli alleati occidentali. Si gridò di nuovo al “tradimento” e al “voltafaccia”, in una gara tra il MSI e la DC per assicurarsi l'appoggio dei voti istriani e dell'elettorato moderato e anticomunista.

Ne dà una testimonianza diretta Alfio Morelli, già allora uno dei dirigenti del Movimento Sociale Italiano: “Il voltafaccia alleato sulla questione del TLT e la spinta impressa alla trattativa diretta ebbero ripercussioni sul Governo Italiano.

Il mancato sostegno degli alleati alla Dichiarazione tripartita equivaleva ad una dichiarazione di fallimento della politica del Governo italiano e dei partiti che l'appoggiavano. Inoltre le conseguenti trattative dirette lasciavano, senza ombra di dubbio, intravedere il peggio.

Affrontare a Trieste, in quella situazione, le elezioni amministrative, sarebbe stato per la DC ed i suoi alleati (PSVG, PRI, PLI) una grossa incognita. […] La posizione del MSI era decisamente contraria al rinvio delle elezioni amministrative. Ben diversa era la sua pregiudiziale politica, poiché discendeva dalla volontà d'impedire, per quanto possibile, che sul problema del TLT si proseguisse lungo la strada dell'accordo bilaterale tra Roma e Belgrado e quindi con il pericolo di una rinuncia della “Zona B””.

In realtà gran parte dell'opinione pubblica triestina sopravvalutò ancora una volta l'importanza e il peso internazionale della città. L'Italia faceva parte della NATO ed anzi ne era uno dei partner più fedeli – in alcuni circoli della sinistra veniva ironicamente definita come “la Bulgaria della NATO” – e per di più godeva di un flusso continuo e cospicuo di aiuti, sotto forma di beni e di crediti, da parte dell'European Recovery Program.

Il governo di Roma, anzi, ribadì ripetutamente che gli Stati Uniti erano “l'alleato più degno di fiducia” e ne seguì fedelmente le direttive di politica internazionale: era chiaro, in questo contesto, che i margini di autonomia di De Gasperi erano molto scarsi.

De Gasperi non poté opporsi a lungo alle pressioni degli anglo-americani e le “trattative ufficiali” ripresero a Parigi e si prolungarono dal 21 novembre 1951 al marzo 1952.

“Le trattative iniziarono il 21 novembre” – scrive Duroselle – “in una totale clandestinità; Bebler e Guidotti si incontrarono talvolta in un caffè”. Ancora una volta le posizioni risultarono irriducibili.

Da parte italiana si chiese il ritorno all'Italia di tutti i territori compresi tra il mare e la “linea etnica”, quella linea cioè che divideva i territori abitati dalla maggioranza italiana da quelli, verso l'interno, a maggioranza slava.

Da parte jugoslava si accettò la cessione della Zona A all'Italia e della Zona B alla Jugoslavia, ma si chiese con forza la cessione di uno sbocco al mare a sud di Trieste: alcuni parlarono di Muggia o di Zaule quali sedi possibili per creare una “Nova Trst”.

Per di più si avanzò un piano cervellotico su una amministrazione comune di tutto il TLT mediante un governatore italiano un vicegovernatore jugoslavo per un periodo di tre anni; successivamente le cariche si sarebbero invertite alla scadenza di ogni triennio.

A molti commentatori e politici europei sembrò che entrambe le delegazioni fossero arroccate su posizioni chiaramente inaccettabili per l'interlocutore, soprattutto a causa delle rispettive opinioni pubbliche. Se da parte italiana si temeva il rafforzamento delle destre a danno della maggioranza che sosteneva De Gasperi, dall'altra Belgrado doveva fare i conti con un'opinione pubblica che non aveva ancora assorbito del tutto le delusioni del giugno 1945 e del Trattato di pace, nonché delle rivendicazioni nazionalistiche che animavano la popolazione slovena e che trovavano accaniti difensori in dirigenti importanti quali Edvard Kardelj e Vladimir Velebit.

Quando l'11 marzo 1952 si tenne l'ultimo incontro tra le due delegazioni, Guidotti avanzò come ultima possibilità per sbloccare la situazione la proposta di organizzare sotto il controllo internazionale un plebiscito aperto a tutte le popolazioni interessate.

La risposta di Bebler fu un netto rifiuto: non si poteva affidare ad un plebiscito la scelta dei confini, in quanto la fisionomia reale di quei territori era stata stravolta a forza dagli italiani dopo il 1918 e soprattutto durante il fascismo. Per di più, secondo la delegazione jugoslava, dovevano essere rivisti quegli accordi stretti con il GMA che avevano modificato il Trattato di pace a favore degli italiani.

Il fallimento dei colloqui era stato totale e le ripercussioni in campo politico non si fecero attendere. A Trieste, come in varie parti d’Italia, trassero nuova forza coloro che si erano sempre opposti ad ogni soluzione negoziale e riprese fiato la polemica contro l’egoismo delle grandi potenze: il generale Winterton divenne il bersaglio di tutte queste delusioni e di questi rancori.

Sforza e De Gasperi cercarono nuovamente di riproporre nell'agenda internazionale la Nota tripartita del marzo 1948, rivendicata in tutta la sua interezza.

Così in città si ripropose la formazione di un blocco di forze “italiane” che in nome della superiore solidarietà nazionale si opponesse ad ogni “tradimento” e ad ogni cessione di territori. Fu creato in breve tempo un “Comitato per la difesa dell'italianità di Trieste e dell'Istria”, cui parteciparono non solo i partiti, ma anche sodalizi patriottici, associazioni sportive, culturali ed economiche, ed associazioni combattentistiche e d'arma.

La stampa quotidiana dette la massima pubblicità alle manifestazioni organizzate per il 20 marzo, anniversario della Dichiarazione tripartita e si moltiplicarono le denunce delle violenze comuniste nella Zona B, delle uccisioni e dell'esodo forzato da quelle terre. A favore del Comitato intervenne anche il vescovo Santin, che negli anni precedenti si era ripetutamente espresso contro le iniquità del Trattato di pace ed il sacrificio delle popolazioni istriane.

In questa occasione il vescovo si rivolse anche al cardinale Spellman, arcivescovo di New York, supplicandolo di “richiamare l'attenzione del governo e dei cattolici americani sulle violente persecuzioni religiose compiute soprattutto in questo periodo nella Zona B del Territorio Libero, mia diocesi, dove il clero e i laici subiscono intimidazioni e sono privati dei diritti religiosi”.

L'atmosfera era carica di tensioni e le più disparate voci di complotti e di infiltrazioni erano all'ordine del giorno.

Nonostante il divieto ad ogni manifestazione al di fuori del concerto in piazza dell'Unità d’Italia organizzato dalla Lega Nazionale, alla fine delle celebrazioni al Teatro Verdi, dove il sindaco Bartoli aveva duramente attaccato la doppiezza degli alleati occidentali rivendicando all'Italia l'intero Territorio libero, un corteo si mosse verso la piazza. Numerosi manifestanti attaccarono allora la sede del Fronte indipendentista e un circolo inglese.

I disordini più gravi scoppiarono dopo l'arresto di un giovane che aveva esposto il tricolore in piazza. La polizia attaccò con idranti e lacrimogeni.

Fu quello solo l'inizio: le manifestazioni durarono fino al 25, sullo sfondo di una città mezza paralizzata dallo sciopero generale e ormai sotto gli occhi dell'opinione pubblica internazionale. Si verificarono, in quei giorni, ripetuti assalti contro le sedi degli indipendentisti e dei circoli inglesi: il governo di Londra fu infatti il bersaglio preferito dai manifestanti, soprattutto per l'appoggio a quella strategia negoziale tra Roma e Belgrado che avrebbe avuto come sbocco inevitabile la divisione definitiva del TLT in due parti e la cessione della Zona B alla Jugoslavia.

Ma il furore dei manifestanti prese di mira anche il GMA e la Jugoslavia.

Alle manifestazioni non parteciparono i comunisti di Vidali, che si tennero al margine degli avvenimenti con un atteggiamento piuttosto defilato, come risultò anche dal fatto che i Sindacati unici, da loro controllati, si limitarono a proclamare, a differenza delle altre organizzazioni sindacali, solo una mezza giornata di sciopero.

Una decisa condanna delle manifestazioni “filoitaliane” venne espressa invece dai circoli indipendentisti italiani e sloveni, che, riuniti nel “Coordinamento per la difesa del TLT”, attribuirono i disordini ad elementi inaffidabili ai quali il GMA aveva affidato l'amministrazione civile. Nella loro relazione ufficiale su quelle giornate sostennero anche che solo una piccola parte della popolazione triestina aveva partecipato agli scontri, che erano stati provocati per lo più da studenti e da gruppi importati dall'Italia. Dovevano quindi pagare i veri responsabili degli incidenti, e cioè il presidente di Zona, il sindaco e il sovrintendente scolastico, accusato di aver giustificato lo sciopero degli studenti.

Quelle giornate furono comunque per i partiti che si ritrovavano nella linea seguita da Bartoli, un grosso successo politico: per di più, alla fine delle manifestazioni, il sindaco mostrò con abilità di voler circoscrivere le accuse all'“orgoglio e al puntiglio di alcuni funzionari, che non si sono dimostrati all'altezza del loro delicato compito”, affermando di voler “dividere il grano dalla zizzania” dal momento che all'interno della polizia civile vi erano anche numerosi poliziotti italiani che erano dei veri gentiluomini.

Sulla stampa occidentale queste giornate ebbero un'eco immediata, come la difesa del generale Winterton e della polizia civile fatta dal ministro degli Esteri inglese Anthony Eden. In Italia molti rovesciarono ogni colpa sul generale inglese, che non avrebbe mai avuto – per usare le parole di de Castro – “la sensazione di che cosa fosse l'immensa, irrazionale “italianità” di Trieste e di quanto essa fosse capace”: gli vennero imputati “metodi di stampo coloniale” e una violenza del tutto gratuita e sproporzionata, nonché la volontà premeditata di favorire la Jugoslavia.

Ogni corresponsabilità nei disordini da parte del governo italiano fu prontamente smentita, quasi ad allontanare il sospetto, avanzato da più di un diplomatico europeo, di un'organizzazione precisa e di un piano studiato anche al di là dei confini.

Numerose manifestazioni si ebbero negli ultimi giorni di marzo sia in Italia che in Jugoslavia: a Milano, a Napoli, a Roma, a Bari, come a Belgrado e a Lubiana.

In questa occasione De Gasperi seppe approfittare con tempismo della crisi appena scoppiata e rilanciò con forza la “questione di Trieste” davanti alla diplomazia internazionale.

Da tempo Vittorio Zoppi, segretario generale del ministero degli Esteri, aveva lanciato la proposta di trasferire parte delle responsabilità del GMA a personale italiano per alleviare i contrasti sempre più vivi tra le autorità anglo-americane e la cittadinanza. Ora De Gasperi decise di riprendere la proposta e di presentarla ad Anthony Eden attraverso l'ambasciatore italiano a Londra, Manlio Brosio.

Il ministro inglese si dichiarò subito d’accordo a prendere nella massima considerazione questa possibilità e il 27 marzo un comunicato congiunto annunciò la convocazione a Londra di una Conferenza tripartita.

Le proteste di Belgrado furono immediate e violente, anche perché il governo jugoslavo non era stato avvertito della nuova iniziativa. Tito minacciò dure reazioni, ribadendo davanti al Parlamento che Trieste non era mai stata italiana e che lo era diventata soltanto grazie ad un segreto accordo imperialista siglato quando la Prima guerra mondiale era già iniziata.

Se le armate italiane fossero entrate nella Zona A, con i suoi “appetiti e le sue pretese imperialiste”, ciò avrebbe costituito “uno dei più grandi focolai di conflitto”.

Nonostante queste minacce – in numerose città jugoslave si svolsero manifestazioni accese al grido “Non cederemo Trieste; piuttosto la guerra” – la Conferenza tripartita si riunì il 3 aprile e, dopo le prime difficoltà, che sembrarono insuperabili, portò a termine con successo i lavori il 6 aprile.


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